La ceramica senegambiana. Patrimonio culturale universale.

Esempi di ceramica utilitaria joola della Bassa Casamance. Tratto da L.V. Thomas, “Les Diolas II, Essai d’analyse fonctionnelle sur une population de Basse Casamance”, Dakar, Mémoires de l’Institut Français d’Afrique Noir, 1958.


Nel 2007 una mostra all'IFAN, Istituto Fondamentale dell'Africa nera, di Dakar celebrava la produzione delle ceramiche Senegambianei. La mostra si intitolava « Katep: terracotta, arte della terra e della vita » era un presentazione tematica etnografica e storica dei vari stili e delle rappresentazioni dell'opera della terracotta nell'opera delle ceramiste, in quanto si tratta di un'arte di carattere prettamente femminile. L'obiettivo è di mostrare come le diverse persone della regione senegambiana abbiano progettare le loro ceramiche e di come le tecniche si sono evolute nel corso degli anni e di come queste pratiche siano radicate nell'arte, nella religione, nei rituali e nella cultura. Nell'ambito della mostra è stato tributato un omaggio all'artista ceramista joola, Awa Seyni Camara per il suo modo particolare di utilizzare le argille e di rendere la profondità della vita culturale e religiosa attraverso le sue opere.

Nella produzione ceramica in Bassa Casamance è possibile cogliere i caratteri della profonda civilizzazione dei gruppi che si sono insediati in queste terre. La produzione ceramica casamancese solo ad un primo sguardo distratto appare quale una tecnica arcaica destinata a scomparire sotto la spinta del progresso tecnologico di origine esotica. In realtà la ceramica casamancese testimonia di una filiera estremamente raffinata che presuppone una conoscenza profonda del territorio e che si lega ai agli vari saperi che questi gruppi hanno elaborato ed accumulato attraverso la progressiva antropizzazione di questa ricchissima, anche se originariamente inospitale, fascia lagunare tropicale.


Raccolta dell'argilla lungo un braccio di mare vicino a Bignona,
tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.

Nel senso più ampio, la ceramica qualifica tutta la filiera delle argille selezionate e purificate, poi seccate al sole. Questa filiera è estremamente complessa ed ad essa è possibile, a questo titolo associarvi la fabbricazione dei mattoni e l'edificazione delle abitazioni. Ma nello specifico, la ceramica implica la cottura dell'argilla. Il reperimento e l'estrazione delle argille è un processo molto lungo ed elaborato. La prima operazione è quella dell'individuazione del giacimento delle argille. Normalmente vengono individuate delle zone vicino ad uno del bracci di mare che formano il labirinto del sistema lagunare casamancese da cui estrarre l'argilla. Queste zone, lontane anche parecchi chilometri dai villaggi, sono normalmente raggiungibili solo in piroga.

Le artigiane ceramiste conservano gelosamente l'ubicazione di questi giacimenti perché la loro individuazione costa di lunghe e pazienti ricerche e in sé costituisce un importante valore economico. Una volta raggiunti questi remoti giacimenti le artigiane ceramiste costruiscono dei cumuli conoidali che possono raggiungere 1 o 2 metri di altezza. Questi cumuli vengono lasciati dai due o tre anni a riposo in modo che le forti piogge dell'hivernage tropicale dilavino le argille dall'eccesso di sale dovuto alla salinità dei bracci di mare. Al termine di questa fase le argille vengono confezionate in sfere di alcuni kg di peso, avvolte il foglie di ronier e trasportate al villaggio.


Kädyämmo anfora destinata alla conservazione dell'acqua potabile

Il lavoro tradizionale della ceramica (atafa ubara) ha luogo durante i periodi nei quali il lavoro dei campi è meno pressante. La prima operazione una volta reperita l'argilla nel luogo in cui verrà lavorata è quella di preparare un buco di forma quadrata, della profondità di circa un metro, nel terreno generalmente nell'aia di casa. La ceramista vi depone l'argilla riempiendo la cavità fino a circa 20 cm dal bordo. Poi ogni mattino, per 3-4 giorni, procede ad innaffiare questi bukap per stemperare uniformemente la massa dell'argilla. Nel frattempo si procura les coquillages (çsêng) provenienti dai bracci di mare o dalla fascia mangroviale.

Le conchiglie saranno poi cotte sul fuoco per alcune ore, in modo da renderne agevole la polverizzazione. Dopo di che, a fuoco spento, le conchiglie vengono setacciate in modo da eliminare ogni tipo di impurità, per poi essere messe dentro un mortaio per essere pilate mediante la stessa tecnica con cui si effettua la decorticatura del riso, mediante i pestelli tradizionali. Questa operazione si chiama humon, o tâmf. La polvere di conciglie così ottenuta viene mischiata e stemperata con l'argilla, attraverso una tecnica con cui la ceramista utilizza i piedi: è il cosidetto le woboyd. Al bisogno, ella si serve anche delle mani per sciogliere eventuali grumi: si tratta della tecnica detta del kehlen (o bugundy, o bugunj), se il lavoro si svolge nell'acqua, tofody o tofo se viene fatto a secco. Una volta che il prodotto è ben omogeneo, viene stoccato in un recipiente in terra più o meno grande a seconda delle esigenze della ceramista.


Pilatura della miscela organica che sarà aggiunta alle argille,
tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.


Nel predisporre il suo semplice posto di lavoro la ceramista pone di fronte a sé un asse liscio in legno (generalmente di fromager) dove vi rulla la massa molle dell'argilla per arrivare a preparare delle specie di cilindri del diametro di circa 2/3 cm di una lunghezza che dipende dal tipo di oggetto previsto, dopo questo cilindro viene disposto sulla forma per ottenere grossolanamente la forma progettata. La parte superiore dell'oggetto viene invece modellata a mano con il lavoro delle dita. E' a questo punto che comincia la fase di lisciatura e texture realizzata semplicemente con un coccio di un'anfora rotta o con una conchiglia da ostrica. Lo strumento viene spesso lavato nell'acqua con cui la ceramista cosparge spesso sia l'interno che l'esterno dell'oggetto per uniformarne la superficie e per cancellare le tracce dell'assemblaggio. Da momento che la ceramista non dispone di nessuno banco di lavoro girevole, semplicemente fa ruotare l'oggetto che sta modellando tenendolo sulle ginocchia.

Quando l'oggetto raggiunge la forma desiderata viene posizionato in un luogo soleggiato destinato ad ospitare tutti i manufatti da essiccare. L'essicatura dura diversi giorni (circa 5 o 6). Quando gli oggetti saranno sufficientemente asciutti, la ceramista procede ad il trattamento con una corteccia di un arbusto (bulakin). Le donne, dimostrando una profonda conoscenza delle essenze naturali fitogenetiche, prima passa al mortaio questa corteccia. La massa vegetale viene poi stemperata in acqua in modo da ottenere un succo concentrato, di colore rossastro con il quale saranno abbondantemente impregnati gli oggetti sia dentro che fuori, usando una sorta di pennello in fibra vegetale. I joola utilizzano anche una specie di impregnante impermeabilizzante naturale derivato dal frutto verde di bahab (Parinarium Senegalensis). Dopo di che i vasi, le brocche e gli altri manufatti tornano in essicatura naturale al sole per altri 2-3 giorni.


Sequenza della cottura della terracotta,
tratto da Michèle Odeye-Finzi, Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie. 1994 , L'Harmattan, Paris.

Terminata questa fase si passa alla cottura vera e propria. Sono le donne che hanno selezionato una determinata tipologia di legna molto secca (in grado di produrre così alte temperature): si tratta della scacciatura delle palme, sottoprodotti dell'economia di raccolta, paglia e pula di riso e della varia legna secca che è possibile raccogliere in brousse senza abbattere nessuna pianta. In un angolo dell'aia le donne preparano questo cumulo di legna che può raggiungere anche il metro di altezza, comprensivo degli oggetti in cottura che vi sono posti sopra. Questi vengono poi coperti con un altro strato di rami della stessa dimensione del livello inferiore. Il fuoco viene acceso in più punti. Dopo un'ora, la ceramista comincia a rimuovere gli oggetti ad uno ad uno, con un lungo bastone, e li pone a raffreddare in disparte. A volte, diversi giorni dopo, i manufatti vengono sottoposti ad una seconda e definitiva cottura con legno di mangrovia.

I joola utilizzano per questa tecnica caramica vari attrezzi o strumenti. In primo luogo una tavolozza curva e una serie semplici spatole di legno (hannum), un coccio di vaso rotto e per lisciare o attribuire delle texture alle superfici, una conchiglia apposita, che normalmente sono quelle delle ostriche delle mangrovie (Gryphea Gasar). In secondo luogo delle forme prestabilite cioè dei veri e propri stampi. Ogni artigiana/o ne ha un variegato assortimento, con un livello di complessità anche molto elevato, come nel caso dei bruciatori di incenso (brûle-parfum), spesso utilizzati nel Fogny per scacciare le zanzare. 



Preparazione cottura delle terracotte nell'aia dell'atelier di Seyni Awa Camara
tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.


A parte qualche rara eccezione, la ceramica è in primo luogo un lavoro femminile, come del resto sembra essere la regola generale di tutta l'Africa nera. I materiali basici utilizzati in questa tecnica possono essere ridotti a due: una parte di argilla (bukap), grigia o rossa lateritica a seconda della regione, e una parte di conchiglie, a loro volta pilate e setacciate, (normalmente vengono usati i carapaci delle specie Semi-fusus Morio, Tagelus Angulatus o il Cymbium) in modo da aumentare la resistenza del manufatto. Da sempre i villaggi di Oussouye, Edioungou e Djivente sono noti per la quantità e la qualità delle loro ceramiche nelle quali praticamente tutte le donne depositarie di queste tecniche.

Non solo queste artigiane si autoproducono gli oggetti di cui hanno bisogno per la vita domestica, ma sono impegnate in un vero e proprio business. Ceramiche, vasi e altri oggetti vengono commercializzati nei mercati sia da parte delle donne che degli uomini (che possono vendere il prodotto dell'attività delle loro mogli, ma non hanno il diritto di pretendere nessuna commissione), o vengono venduti o scambiati sul posto.


Sequenza della cottura della terracotta,
tratto da Michèle Odeye-Finzi, Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie. 1994 , L'Harmattan, Paris.

Tutti i manufatti ceramici vengono prodotti a mano e poi cotti all'aperto. Le donne utilizzano tre tecniche: la prima è le modelage: il ceramista parte da una massa d'argilla che viene modellata al fine di ottenere la forma desiderata utilizzando le mani, è così che si producono i cosidetti kaydium o canarì dai 50 ai 60 cm di altezza. La seconda è le moulage: molte volte le donne utilizzano a questo scopo un vecchio oggetto che vogliono sostituire e, in questo caso, il modello viene rivestito esteriormente di argilla. Quindi, le moule è innanzitutto un oggetto non intenzionale, semplicemente recuperato, che serve solo per quella singola produzione. Questa tecnica viene utilizzata, sia per i manufatti più complessi per le loro forme quali per esempio i brûle-parfum, le gargoulettes, o relativamente importanti come taglia come le kädyämmo o le anfore destinate alla conservazione dell'acqua. Ma la tecnica più diffusa, utilizzata anche da Awa Seyni Camara è ancora le montage. La ceramista prepara dei lunghi cilindri d'argilla che saranno in seguito curvati ed assemblati a pressione. D'altronde questo modo di procedere si può combinare con i precedenti.

Il carattere utilitario dei manufatti ceramici joola non significa che non sia curata l'estetica e l'originalità dello stile. Generalmente le forme sono molto armoniose e le superfici accuratamente rifinite. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una attività solo apparentemente elementare, ma di fatto perfettamente adattata alle esigenze della vita domestica, praticata con una competenza ed una rapidità eccezionale, nonostante l'aria nonchalant della ceramista, che spesso, seduta sotto la veranda, lavora l'argilla mentre sorveglia nello stesso tempo i bambini che giocano nell'aia e la pentola del riso che sta cuocendo al suo fianco.

Trattamento di una statua con un impregnante impermeabilizzante naturale derivato dal frutto verde di bahab (Parinarium Senegalensis) nell'aia dell'atelier di Seyni Awa Camara, tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.


I manufatti in ceramica giocano anche un importante ruolo nella vita religiosa. In primo luogo, sotto ogni tetto di paglia che ospita un bëëkinii è presente un oggetto in ceramica rovesciato, anche se non ha una valenza religiosa vera e propria, viene considerato un'importate segno di rispetto e protezione. D'altra parte, i vasi in ceramica vengono collocati ai piedi di molti alberi sacri: sono serviti per portare il vino di palma le libagioni ed i sacrifici. Essi sono oggetti tabù nella misura in cui si trovano collocati nei luoghi sacri, ma perdono ogni significato religioso quando ritornano al villaggio.

Una regola: un vaso rotto in un santuario non può essere rimosso, è per questo motivo che è possibile vedere piccoli mucchi di detriti vicino a bëëkin importanti. Si tratta di una funzione sacra che però è essenzialmente evenemenziale, ma mai in modo coerente. Attività vitale, la ceramica non ha bisogno di spirito religioso, sia perché si tratta di una pratica quotidiana, il successo della legge è assicurato che il materiale in lavorazione è essenzialmente malleabile, e la morte non intenzionale. Qui c'è bisogno di coinvolgere i più alti poteri che gestiscono o per effettuare in condizioni ideali.




Sequenza della cottura della terracotta, tratto da Michèle Odeye-Finzi,
Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie. 1994 , L'Harmattan, Paris.

La ceramica joola è molto ricca sia come forme, che come funzioni. Il più celebre di questi oggetti di terra è il gahinum o kädyämmö, ou kiren. Si tratta di una grande recipiente la cui funzione è quella di custodire la riserva di acqua della famiglia, raggiunge un'altezza di 60-70 cm con un diametro pari all'altezza e un'apertura che non supera i 20-30 cm. Troneggia in ogni casa in un angolo del soggiorno o, a volte, su una costruzione di bancò o su un ponteggio in legno in un angolo del salotto o sotto la veranda che circonda ogni residenza. Ci sono poi i vari sibar e i dyitep più piccoli, ma con sostanzialmente la stessa forma. Possono essere utilizzati sia per prelevare a tuffo l'acqua dal gahinum. Una varietà molto diffusa, dotata di un manico intrecciato è velukun con un diametro massimo di 20 cm per 15. Per bere i joola utilizzano piccole brocche (eguto) (), simili ad alcarazas reali come lo yemarängö la cui altezza varia tra i 20 e i 30 cm con un diametro massimo di 25. Il vino di palma è conservato in un jibiki, una sorta di piccola anfora dotata di una apertura sottile adatta alla mescita del bunuk. Si tratta di un piccolo vaso con due manici laterali. Intorno a questi recipienti utilitari fondamentali esistono poi tutta una serie di oggetti che sono specifici di ogni gruppo familiare o di villaggio, che svolgono le funzioni più diverse, testimoniando della ricchezza concreta della vita domestica di queste popolazioni.

La considerazione più importante che emerge a proposito dell'autoproduzione dei vari contenitori per uso domestico, sociale e religioso dei joola (in argilla, legno e carapaci vegetali naturali) è che questi gruppi umani hanno risolto brillantemente, con ciò che l'ambiente mette loro a disposizione, il problema della disponibilità di recipienti. Qui è possibile constatare la straordinaria intelligenza pratica che è stata messa in campo: concepire un sistema domestico, oikonomico direbbe Emmanuel Ndione, realizzato con il minimo di risorse e massimizzando l'efficienza dei mezzi tecnici a disposizione. Il realismo e il pragmatismo dei joola si trovano in questi manufatti, realizzati ed esaltati nella loro profonda dimensione di espressione culturale e, nello stesso tempo, biologica in termini di sostenibilità ambientale spontanea.


Ewe, Ceramista di Edioungou al lavoro, tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.


Una delle attività artigianali che contraddistingue le popolazioni locali è l’autoproduzione diffusa in ambito familiare, dei contenitori e suppellettili in ceramica. Le donne delle Casamance hanno da sempre autoprodotto, utilizzando le argille che l’ambiente metteva loro a disposizione, i propri contenitori per l’utilizzo domestico, per la conservazione e la preparazione dei cibi, del riso e per qualsiasi altra esigenza.

Il controllo su tutte le fasi della produzione (reperimento e preparazione delle argille, modellatura e decorazione dell’oggetto e cottura) viene effettuato dalle donne stesse, ognuna delle quali si esprime attraverso una notevole originalità stilistica e creativa. In questo modo ogni oggetto, oltre a rappresentare lo stile artistico di ciascuna di loro, conferisce una originalità particolare alle suppellettili di ciascuna abitazione e gruppo famigliare. Questa aderenza alle tradizioni non vieta alle donne di Casamance di esprimersi anche attraverso l’oggetto d’arte vero e proprio, puramente visivo e tattile, senza utilità contingente, vere e proprie opere d’arte. L’assenza di vernici o coloranti chimici, di trasporti sulle strade di materie prime sia per la produzione che per l’utilizzo domestico, l’assoluta assenza di produzione di rifiuti dannosi per l’ambiente fanno sì che la produzione delle terracotte tradizionali permetta di coniugare rispetto e valorizzazione sia del patrimonio culturale che di quello ambientale.


"Coppia in atteggiamento esplicito" di Seyni Awa Camara, tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.

Il completo controllo sul processo produttivo e la valorizzazione delle proprie capacità artigianali e creative, il carattere assieme sociale e simbolico che rivestono questi oggetti nella vita delle comunità, il piacere fisico dal contatto diretto con un elemento primario, la terra, da cui nasce, attraverso il lavoro, un prodotto a quasi esclusivo valore d’uso fanno sì che questa produzione esuli dalle categorie della produzione seriale, anche di un certo commercio cosiddetto equo e solidale. Entrando nella sfera di scambio, assieme a altre risorse (la principale è il riso) e manufatti l'artigianato ceramico permette alle donne di incrementare il numero di scambi e il cosiddetto “petit commérce”, i cui profitti vengono gestiti in totale autonomia.

Si tratta di oggetti “unici” che le donne utilizzano o commercializzano per autofinanziarsi. La ceramica della Bassa Casamance si inscrive in un’idea territorializzazione di un gruppo in una determinata regione: dentro una cultura. Assieme alle tecniche tradizionali di bonifica e coltivazione dei terreni, alla disposizione paesaggistica delle essenze vegetali attorno a nuclei di densità simbolica come determinato dalle religioni basiche, alle tecniche di conoscenza ed utilizzo delle essenze vegetali derivata dalla medicina erboristica tradizionale, alla architettura biodinamica della Casamance, (solo per indicare qualche disciplina tra le altre) la ceramica costituisce uno dei saperi “deboli”, con però una elevatissima cifra di sostenibilità sociale ed ambientale, che assieme definiscono il contesto di una Civiltà.


Seyni Awa Camara 2009, tratto da "Le Ventre de la Terre", Director: Anne Bataille, France. 2009.


Dalle parole di Kayoma Bassène, capo villaggio, ripercorriamo come Edioungou è diventato un villaggio specializzato nella produzione di terracotte: “Questa storia mi venne raccontata tanto tempo fa dagli anziani. Allora le giovani donne non andavano in città per cercare lavoro. Attraversavano la frontiera con la Guinée Bissau, allora occupata dai portoghesi e si facevano assumere per sorvegliare le risaie e così proteggerle dagli uccelli granivori. Allora, per questo lavoro non ricevevano un salario, il denaro era sconosciuto nei villaggi, ma dopo il raccolto veniva consegnato loro del riso che loro stoccavano nei granai in vista del loro matrimonio. E' stato durante queste migrazioni stagionali che le donne joola scoprirono il villaggio d’Eliha che allora era già famoso per la produzione delle terracotte. Di ritorno a Edioungou le più abili cominciarono a imitare ed a replicare quello che avevano visto. Le donne utilizzavano le coquillages che trovano qui e che era differente da quello utilizzato da coloro che si trovavano dall'altra parte della frontiera, ma che sembrava funzionare anche meglio. Per la cottura le donne scegliettero le foglie e la potatura di palmiers e di rôniers, rispetto alle foglie di banana, che rendevano le terracotte più solide. Ben presto cominciarono a produrre una vasta gamma di contenitori per gli usi più vari, così potevano andare a scambiarli nei villagi vicini. In questo modo le donne smisero di emigrare verso sud nella stagione secca per sorvegliare gli uccelli in Guinée. Con tempo si specializzarono nella loro nuova forma di artigianato. Fu così che le donne di Edioungou e quelle del villaggio vicino di Djivente divennero le più famose ceramiste della regione”.


i Durante questa mostra, il laboratorio di preistoria ha presentato risultati di circa venti anni di studi archeologici, etnografici e etnoarcheologici nella regione Senegambiana. Una ricerca condotta su circa dieci siti in Senegal in ambito Wolof, Sereer, Joola, Fulani, Mandinka e Bassari che ha contribuito a costituire un corpus importante sulle ceramiche utilitarie. Molto importanti per a proposito le ricerche di Ndèye Sokhna Guèye che evidenziano come l'attuale ritorno alla autoproduzione delle terracotte si possa inquadrare nella reazione alla mondializzazione dell'economia, al fenomeno di riappropriazione delle donne delle loro specifiche competenze tecnicoartistiche e della rivalorizzazione del patrimonio culturale locale.

ii Bëëkin: termine polisemico designante nello stesso tempo l’autorità religiosa, una forza sovrannaturale, il santuario, l’altare e gli strumenti di culto. Ahan è l’aggettivo che designa il maggior grado di importanza nella gerarchia dei bëëkin, rivolto sia all’altare, sia all’officiante. Secondo il mito Jananande o Jaañañadi è toro senza corna che vive nella foresta sacra di Sihjak. Per Nazaire Diatta si tratta della personificazione del contratto uomo – ambiente che ha permesso lo sfruttamento economico del territorio. Nazaire Ukëyëng Diatta, 1982 «Anthropologie et herméneutique des rites joola» Thèse pour le doctorat 3° cycle EHESS, Paris. Pag. 280 – 285. “In diola, religione si traduce come: burong o butum. Che significa letteralmente «la via», «il cammino». Nelle gerarchie del pantheon, esiste un Dio-Unico, un Dio-Cielo “Ata-emit”, ma è troppo lontano, inaccessibile. E’ per questa ragione che è preferibile rivolgersi a delle divinità secondarie attraverso la mediazione degli antenati che servono da interpreti. Questo è il ruolo dei bëëkin. Temine joola che può essere approssimativamente tradotto in «genio» o «feticcio». Questi intermediari tra gli uomini e le divinità non sono che l’espressione degli astri o dei fenomeni d’origine naturale: nascite, fulmini, pioggia, vento, epidemie, morte, fiume, montagne, animali, onde, alberi... gli alberi non sono nemici, ma dei partner che bisogna rispettare. Il bëëkin esiste per mezzo di una concentrazione in un luogo determinato di forze soprannaturali attive. E’ allo stesso tempo un luogo sacro e una forza religiosa che non si anima se non sotto l’impulso del féticheur, che sa come rivolgergli la parola. Il successo del sacrificio dipenderà soprattutto dalle parole dell’officiante, come recita un proverbio diola che afferma che «è la bocca che crea il feticcio» (butum akenemu bëëkin).”. Christian Sanglio, 1984, “Casamance”, Parigi. Pag. 79.


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