Invenzione di un “artista africana”
Seyni Awa Camara è famosa in tutto il mondo e le sue sculture sono oggi opere profonde dell’Art Brut
più autentica. Louise Bourgeois la considerava la più grande scultrice
di terra vivente. Awa Camara è stata una delle nove donne tra i 100
artisti presenti a prendere parte alla prima pionieristica mostra
sull'arte contemporanea africana “Magiciens de la Terre”,
al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1989. E' stata la prima mostra
a presentare artisti provenienti da diverse culture e continenti in una
narrazione comune ampliando il concetto di contemporaneo al di là della
sfera dell'arte occidentale. Da allora le sue opere fanno parte di
tutte le più importanti collezioni mondiali, gallerie d'arte e musei a
cominciare dalla “Jean Pigozzi”. Awa ha esposto veramente in tutto il mondo, è stata oggetto di monografie antropologiche, saggi e tesi sull'arte “brut”,
registi di tutto il mondo gli hanno dedicato documentari, mentre
critici d'arte e giornalisti hanno cercato di rappresentarne estetica e
contenuti espressivi*.
Il risultato è stato quello dell'emergere di Awa quale “strano personaggio” dalle cui opere “emerge un mondo di personaggi enigmatici, di prole aureolate, giocosi e sfrontati”, un mondo “mistico laico”, uno ”strano mondo in cui Awa si è ritirata misticamente” quale “responsabile di una conoscenza pesante come un destino”.
Le descrizioni di stampo essenzialista e etnicista con varianti
addirittura di stampo spiritistico-animista su Awa si sprecano. Alla sua
arte sarebbe stata “formata dai geni della foresta”, mentre la sua vita e le opere sarebbero “impregnati di un misticismo inerente spiriti dispettosi e pratiche animiste che caratterizzano i villaggi africani”, relegando così l'Africa intera nella sfera dei culti arcaici e delle pratiche precivili, rinforzando ancora una volta una presunta idea di un'uniformità culturale continentale nel segno dell'alterità inconoscibile e premoderna.
Non è vero, come sostengono alcuni « critici », sottolineando un presunto « radicamento ossessivo al suo linguaggio, ai luoghi ed alle mitologie della terra in cui è nata
» che Awa Seyni Camara non ha mai lasciato la Casamance. Semplicemente
Awa ama stare a casa sua, al suo posto, è perfettamente realizzata e
rispettata nel suo villaggio e nella comunità di cui fa parte.
La
storia di come la vita e le opere di Awa sono state rappresentate ha
dell'incredibile. Nel migliore dei casi incontriamo descrizioni di tipo
macchiettistico in cui si immagina un inesistente universo mitologico
africano da cui deriverebbe l'estetica artistica di Awa, nel peggiore
dei casi si inventano eventi e fatti completamente di sana pianta in
modo da lasciare intravedere, dietro questi eventi, un primitivismo che
può derivare solo da immaginari sottilmente razzisti e eurocentrici.
Vale
la pena, a mio parere, ripercorrere sommariamente la quantità ed il
tipo di menzogne che vengono fatte circolare su Awa, non tanto per
denunciare chi applichi un tale riduzionismo etnocentrico, ma proprio
per iniziare un percorso di riflessione e consapevolezza su quanto siano
fittizi le nostre idee riguardo ad una presunta alterità delle popolazioni
africane e di quanto invece il linguaggio dell'arte accomuni ogni donna
ed ogni uomo nella contemplazione del trascendente, in Europa come in
Africa.
Innanzitutto non è vero che « la terracotta, [sia] un materiale tutt’altro che tradizionale, in Casamance, e che Awa è l’unica donna scultrice del villaggio »,
come vedremo la terracotta ha una lunga tradizione in questa regione e
che Awa proviene da un villaggio famoso in tutta la Casamance perchè
specializzato nella produzione di terracotte utilitarie.
Un'altra invenzione di sana pianta riguarda il suo presunto « l'immaginario strettamente legato alle mitologie e ai misteriosi riti dei joola, l'etnia cui Seyni Camara appartiene
». Tanto per cominciare, come mostrerò in seguito, Awa non è joola e la
Casamance si potrebbe descrivere forse come uno dei luoghi meno «
etnici » del mondo, essendo una specie di melting-pot in cui non esiste
la minima uniformità ne religiosa, ne linguistica, ne tanto meno
culturale. Men che meno il lavoro di Awa è legato a mitologie e a riti
joola: i joola della Casamance infatti sono uno dei pochi gruppi
culturali del continente africano che non possiede mitologie; riguardo
poi ai «misteriosi riti
», va chiarito che nella religione tradizionale di questi gruppi c'è
ben poco di misterioso e che nessun luogo di culto presenta icone e/o
idoli antropomorfi come i lavori di Awa. Nella religione di tipo
panteista, comunque monoteista, delle popolazioni joola non esistono «dee madri pronte ad allattamenti multipli e spericolati ».

La
critica occidentale, nel suo furore tassonomico e analitico, ha tentato
di classificare l’arte contemporanea africana distinguendo anche
diverse correnti, in base alla formazione degli artisti, agli stili e al
pubblico a cui sono destinate le opere. Per André Magnin e Jacques
Soulillou l’elemento tradizionale è fondamentale e contiene un
significato spirituale profondo che nutre gli artisti dal nord al sud
del continente, insieme ad un senso della comunità che è ancora
importante nell’arte contemporanea africana, seppur mutato nel tempo. Il
testo Contemporary Art of Africa suddivide gli artisti in tre gruppi: territorio (a cui appartiene Awa Seyni Camara), frontiera e mondo.
Pierre Chanson si spinge ancora più in là. Definisce Awa « légende vivante de son village » da quando lei e i suoi due fratelli gemelli sarebbero stati « initiés à leur art par les génies de la forêt. » Addirittura per Chanson « Seyni et ses deux frères furent enlevés par les esprits de la forêt. » Durante questo « sequestro » Awa sarebbe stata iniziata ai «mystères de l'argile ».
Dimenticando che le iniziazioni, i cosiddetti « boschi sacri », nella
Casamance rurale fanno parte del percorso educativo e formativo di tutti
i giovani, uomini e donne, e che vengono chiamati « spiriti »
esclusivamente per sottolineare il carattere misterico e segreto che
deve accompagnare, come intuito da Van Gennep, ogni rito di passaggio,
Chanson azzarda che «
le village tout entier décida de sacrifier quelques animaux pour
apaiser les esprits, afin que Seyni et ses frères jumeaux reviennent
enfin. Et ce fut effectivement le cas, selon la légende...».
Al trionfo dello stereotipo si arriva con le descrizioni di Awa Seyni Camara come una « scultrice sciamana », dimenticando che in Africa lo sciamanesimo non esiste. Un'altra invenzione di sana pianta è che « la tecnica della terracotta sono segreti [...] antichi come l'Africa
». Le moderne ricerche in ambito archeologico, proprio nella regione
senegambiana dimostrano che è possibile ricostruire scientificamente
l'evoluzione storica ed antropologica della filiera artigianale delle
terracotte. L'immaginazione galoppa addirittura quando si arriva ad
affermare che « l'immaginario
della scultrice è legato alle mitologie dei joola, l'etnia a cui Seyni
Camara appartiene, e ai loro riti esoterici. Non è un caso se le sue
singolari Dee Madri sono cotte nella foresta, in una buca, secondo riti
sciamanici a tutt'oggi misteriosi, perché nessuno vi può assistere. »

Inutile
dire che Awa procede alla cottura delle sue opere nell'aia del suo
atelier, non esistono riti esoterici e mitologie joola, che Awa non
appartiene in modo esclusivo a nessun gruppo etnico specifico, anzi,
come vedremo quando ci occuperemo della comunità di persone che convive
nel compound dove si trova l'atelier, Awa interpreta piuttosto una sua
modernità proprio perché non appartenente tout cour ad una sola
identità, ma testimone piuttosto di una identità transeunte e inclusiva,
molto pragmatica e relazionale, che si trasforma continuamente
attraverso una ermeneutica del contemporaneo.
Claudio Composti definisce le opere di Seyni Awa « figure spettrali » che riproducono « un’iconografia
che si rifà ai misteriosi riti dei joola, l’etnia a cui Camara
appartiene: grandi e mostruose dee-madri antropomorfe nate dalla terra,
spesso colte nell’allattare altrettanto informi cuccioli che sembrano
germogliare dai loro stessi corpi, dee madri mostruose che sembrano
allattare altrettanti piccoli esseri mostruosi che nascono e vivono
dalle loro stesse costole. »
Siamo
di fronte ad un inquietante cocktail di teoria rousseauniana del « buon
selvaggio », mito conradiano stile « cuore di tenebra », il tutto
condito con la solita alterità radicale ed inconoscibile che ha bisogno
della civiltà per uscire da una condizione mitologica forse dovuta alla
maledizione di Cam e che presuppone un doveroso intervento ordinatore
esogeno, stile « il fardello dell'uomo bianco ». Le note da resoconto da
viaggiatore ottocentesco si sprecano, poco importa se non hanno una
verifica testimoniale e si riducano a descrizioni fantasiose, che
nascono e muoiono nella fantasia dello scrivente, completamente prive di
fondamento. Infatti è una invenzione di sana pianta che Awa Seyni
effettui le cotture delle sue opere « nella foresta, in una buca, secondo riti sciamanici ancestrali e misteriosi, ai quali nessuno può assistere. », come
detto in precedenza infatti Awa ha sempre effettuato le cotture nello
spazio a questo destinato nell'aia della sua casa atelier. Io stesso ho
assistito alla cottura, testimoniata da documentari e reportage
fotografici, quindi nessun tabù « africano ».

« Ricche di quella magia e forza che solo l’Africa sprigiona (?!?),
disposte come in una selva infernale nella sua piccola casa,
accatastate in ordine di altezza. Magia e forza che danno a queste
Dee-madri un’anima. Sculture dell’immaginario, che prendono forma di
idoli che arrivano da lontano, da una cultura antica ed affascinante
alla quale non possiamo sottrarci, come attratti da una misteriosa forza
che nasce nel continente da cui tutti deriviamo, forse eco di quel “mal
d’Africa” che abbiamo sopito dentro di noi
». Il cerchio si chiude, dopo aver saccheggiato umanamente,
economicamente ed esteticamente un continente, ancora una volta l'Africa
ci rigenera attraverso la misteriosa forza del « mal d'Africa », figura
metaforica per connotare un qualcosa « che abbiamo sopito dentro di noi ».Anche per Emanuela Citterio le opere di Awa Seyni, tanto per cambiare, sono « dee madri di terracotta grondanti di figli.»
La connotazione principale è quella del mistero, secondo l'equazione
Africa=alterità inconoscibile quindi non ordinabile secondo le nostre
categorie: « uno
dei misteri che la riguardano è come sia riuscita a bucare i confini
geografici e culturali del continente africano, senza abbandonare il
cortile di casa sua ». La vita di Awa Seyni viene definita come « una vita piena di misteri ».
Agevolata
dal reportage di un esperto, un collezionista il cui nome d'arte è
Sarenco, prosegue una penosa descrizione di come Awa si porrebbe,
secondo lui, con gli ospiti. Awa, che contrariamente a quanto affermato
non parla una parola di wolof, sarebbe una bizzarra venditrice che si
rifiuterebbe di vendere le sue opere ad un occidentale di passaggio, se
non dopo che quest'ultimo le abbia cooptato la benevolenza regalandole «
una fascina intera di tabacco da masticare
(peccato che Awa fumi la pipa e non abbia mai masticato tabacco)».
Siamo al livello dell'incontro fra esploratore ed aborigeno a cui
regalare delle perline colorate, per avere in cambio di pepite d'oro. La
popolazione di Bignona è vista da questo signor Sarenco come delle
persone senza civiltà, ne Storia e ne media, una specie di naufraghi
dello sviluppo, che vivono ai margini ignari di tutto quello che li
circonda. Mi spiace deludere questo signor Sarenco ma le persone che
vivono in Casamance spesso hanno parenti in tutto il mondo, vivono
calati in una modernità resiliente e vitale e attraverso la forza con
cui affrontano la vita sono pieni di un senso di futuro e di speranza
che forse sarebbe utile anche ai cosiddetti paesi del primo mondo.

Un'altro
must quando si vuole fare retorica ed umanitarismo peloso coinvolgendo
l'Africa sono i bambini. Per la coppia Sarenco-Citterio, come nelle
pubblicità delle organizzazioni umanitarie, anche qui a casa di Awa
Seyni i bambini « sono protagonisti ». E' facile a questo punto l'equazione psicologica da rivista femminile con la quale dal momento che « Awa non ha figli, c'è qualcosa di autobiografico nell'espressione dell'esasperata fertilità che caratterizza le sue opere. In
Africa, dove non avere figli è uno stigma più che altrove. I bambini
nel cortile sono i figli che suo marito, scomparso, ha avuto con altre
mogli, oppure altri bambini del villaggio. Lei, donna scultrice senza
figli, è una doppia eccezione nel popolo dei joola. Il nonno ha
insegnato a lei la scultura solo perché era l'unica discendente: di
solito è l'uomo a rapportarsi con il mondo animista.
» Altre invenzioni di sana pianta: Awa ha imparato la ceramica in
ambito femminile e, in Bassa Casamance le donne sono protagoniste e
sacerdotesse dei culti tradizionali.
Gli
stereotipi assumono un carattere inquietante e razziale quando si
inventano completamente scenari inesistenti, con un'operazione di
riduzionismo etnocentrico, soltanto per colorare di esotismo e di
ingenuo arcaismo persone e scenari socio politici complessi come
quelli della Bassa Casamance. Mi sembra estremamente improbabile che
« i guerriglieri indipendentisti le abbiano distrutto le
opere, accusandola di tradimento», come racconta Sarenco,
infatti per il maquis sarebbe come distruggere una potenziale
fonte di reddito visto che i ribelli hanno la loro fonte di
finanziamento proprio imponendo commissioni e dazi a tutto ciò che
viene esportato da questa regione.
Veramente
tragicomica la descrizione di Sarenco di come Awa avrebbe ripreso a
fare sculture di terra: secondo lui c'è stato bisogno che arrivasse
« Jean Hubert Martin, l'ex direttore del Pompidou perchè
Awa Seyni continui a dare forma alle sue terrecotte.
Completamente inventata, quasi offensiva è poi la descrizione di
Sarenco di Awa Seyni al lavoro: per Sarenco le opere di Awa sarebbero
« state impastate nella terra, poi va da sola nel bosco e
scava grandi buche dove fa cuocere le sue sculture. Accende il fuoco
e danza frenetica, con gesti e parole da sacerdotessa. Quando tutto è
finito si quieta, tira fuori le sue sculture e le porta via. ».
Inutile sottolineare che non esiste niente di tutto questo, nessuna
foresta, non esistono grandi buche, nessuna danza frenetica e men che
meno nessun gesto e parola da sacerdotessa. Mi sembra strano che «del
successo delle sue opere le importa poco», come dice Sarenco,
perché io stesso ho acquistato diversi lavori di Awa Seyni ed ho
consegnato il denaro nelle sue mani e posso testimoniare quanto gli
interessasse.

Per
Gaia Gulizia, come per altri, abbiamo la riproposizione delle stesse
categorie, per lei infatti l'arte di Awa è « un'arte
ancestrale, il cui linguaggio artistico è profondamente legato alla
mitologia del suo popolo, e la creazione delle sue sculture avviene
secondo un rituale quasi magico, a cui nessuno può assistere. I suoi
soggetti sono imponenti Dee Madri che assumono i più svariati
aspetti, ritratte spesso con loro piccoli,oppure esseri multiformi
che appaiono come maestosi ed immaginifici totem, ed ancora coppie
unite in un unico corpo. Il materiale usato è la terracotta, affatto
tradizionale nella regione della Casamance dove Seyni Camara vive.
Secondo quanto lei stessa afferma, Seyni Camara sogna le sue
creature, che alla luce del sole diventano creazioni. Ed il soffio
del sogno aleggia ancora e sempre su queste sculture al tempo stesso
profondamente radicate nella terra d'Africa. Un'arte ed un'artista
essenziali, pure perché scevre da qualsiasi interferenza esterna a
sé, che si nutrono solo della terra in cui nascono e crescono. »
Inutile ripetere quanto detto precedentemente, ma vale la pena
dedicare alcune parole su come, senza nessun pudore, ci si sente
autorizzati a riproporre una serie di luoghi comuni falsi e
fuorvianti. Nessun rituale magico tabù, nessuna icona totemica,
nessun sogno che alla luce del sole diventa creazione, ma una artista
meticcia, ponte fra un mondi contemporanei in cui, come diceva
Eraclito « panta rei ».
Nessuna
forma « che
arriva da un mondo ancestrale, da una civiltà sopravvissuta che
ancora ha la forza di attirare l'uomo contemporaneo e che può
rappresentare una foresta primordiale dove l'essere vivente è
albero, è sasso, è scimmia, è sole, è vento, è cascata ».
Awa piuttosto vive la sua modernità ponendosi continuamente, con il
suo gruppo, quale soggetto in movimento: da una parte i giovani del
gruppo e la loro spinta rinnovativa, però simbolicamente mitigata
dalla duplice condizione, per certi versi contraddittoria, di
ostinato individualismo e di assoluto rispetto delle regole
politico-religiose che stanno alla base dell’idea del Diritto
consuetudinario, cioè “marane
mata lisituba”
«
les
manières de faire e de se comporter, du temps des pères et des
ancêtres
».
Awa Seyni, per certi versi, interpreta una soggettualità di
resilienza, intesa come la
capacità di autoripararsi dopo un danno e di capacità di tornare
ad uno stato simile a quello iniziale dopo avere subito uno stress.
Per certi versi l'intera Africa coloniale ha rappresentato una
straordinaria palestra di resilienza, avendo subito una radicale
sottrazione di risorse e di plusvalore attraverso la tratta negriera
prima, con la colonizzazione poi, per finire con il saccheggio delle
risorse naturali irriproducibili nell'attuale fase di economia
globale.

Sono
d'accordo con quanto afferma Martina Corgnati che “fra le
artiste integrate in società tradizionali, è particolarmente
frequente la deviazione rispetto alla regola e alle consuetudini
della loro cultura, cioè una certa originalità molto apprezzata
dalla nostra idea di arte. E' questo il caso di Seyni Awa Camara che
ha utilizzato la tipica tecnica di produzione di terrecotte per
realizzare oggetti completamente diversi e straordinari. Per lo più
sono grandi madri assediate da una prole famelica, raccolte in un
abbraccio siamese, già separata e ancora parte del loro corpo,
oppure uccelli issati sopra la terra su piedi e gambe umane, caricati
anch'essi di una figliolanza tanto invadente quanto numerosa, che
compromette la loro stessa integrità fisica; si tratta sempre di
singolari ibridi-idoli dalle moltissime teste, gambe e braccia.”
Ha
ragione Sergio Poggianella quando scrive che occorre « porre
l’accento sull’autonomia dei processi creativi degli artisti nati
e operanti in Africa » e
che è importante ridicolizzare e definitivamente combattere la
categorizzazione geografica che è in essa implicita. Poggianella,
che con Transarte propose “Icone d’Africa. Scultura
Africana Contemporanea”,
rassegna di alcuni tra i maggiori artisti africani (Seyni Awa Camara
compresa), sostiene che occorre rivedere e ripensare la supponenza
delle nostre istituzioni culturali evitando categorizzazioni di una
realtà ritenuta esotica e di un'alterità radicale, riconoscendo che
« la produzione artistica africana, pur attingendo a
pratiche, temi e simbologie della tradizione si è sempre più
svincolata dalla “politica dell’identità” e, soprattutto dagli
anni Ottanta, ha raggiunto una maturità, una consapevolezza ed una
originalità tali da non richiedere più esclusivamente una lettura
etno-antropologica. »
Awa
Seyni Camara è una maman
adottiva, un'artista profondamente legata alla sua comunità e che
trova la sua realizzazione personale nell'essere perfettamente
integrata, sia sul piano sociale che su quello religioso, nel tessuto
sociale di provenienza. Quindi nessun concetto fumoso ed opaco come
la cosiddetta « magie de son
immense continent (l'Afrique) »,
nessun « génies de la forêt qui
l'ont guidée dans sa création artistique »,
nessuna « créations oniriques »,
nemmeno nessuna « solitude »,
semplicemente il realizzarsi ontologicamente come donna, da un lato
resiliente e « che nutre », dall'altro attraverso una
profonda spiritualità con cui legge il mistero del lògos divino.

Per
Silvia Forni antropologa del Royal Ontario Museum “le
sue figure umane e animali sono diverse da qualsiasi altro prodotto
della regione”. Cogliendo l'aspetto
relazionale la Forni sottolinea il fatto che le opere di Awa “sono
popolate da volti, braccia, seni, e le persone sono legate tra loro
da collegamenti fisici e simbolici [...] Awa rivisita i suoi temi
quasi ossessivamente, gli animali e gli esseri spirituali che vivono
nella foresta, le coppie, il matrimonio e il sesso, ma anche i
familiari e gli antenati”. Effettivamente
come intuito dalla Forni “
all'interno della scena dell'arte
contemporanea senegalese Camara è qualcosa di un estraneo”.
A
differenza della figura politicamente corretta dell'”artista
africano” che non vede l'ora di entrare nel sistema dell'arte
occidentale, Awa appare come una persona completamente realizzata
nella sua comunità. E' nel suo tessuto sociale che Awa si realizza
come persona, infatti il suo compound
non si differenzia in nulla dalle costruzioni in bancò
del resto del villaggio. Awa come vera maman
joola vive e lavora negli spazi che si affacciano sul cortile comune,
lavando i vestiti, preparando il cibo, organizzando la vita del
gruppo famigliare allargato (non bisogna dimenticare che è Awa a
tenere i cordoni della borsa ed ha organizzare la circolazione del
danaro famigliare).
L'unico
segno di qualcosa di diverso è una scritta sopra la porta principale
"Seyni Camara e Samba Diallo,
artisti in Bignona", mai rimossa
nonostante Samba Diallo, l'ultimo marito di Awa, sia morto già da
quasi 8 anni. Dopo la morte di Diallo, Camara ha fatto affidamento su
numerosi giovani, figli delle altre mogli di Samba, per gestire il
suo lavoro ed aiutarla nel duro lavoro della filiera dell'argilla. La
casa di Awa è piena dei ragazzi del quartiere e questo non è un
fatto marginale nella sua vita, anzi personalmente ritengo che sia la
chiave per comprendere appieno lo status di vera maman
joola che è la vera dimensione ontologica che offre spessore,
originalità ed autenticità alle sue opere.

Nessun
culto di possessione, nessuna scomparsa iniziatica nella foresta,
nessuna “invisibilità” nessun linguaggio “corporeo delle
emozioni”, nessuna espressione fisica di profondo disagio e
marginalità, nessuna emarginazione nella propria comunità non è
vero che la maggior parte dei suoi vicini preferiscano non
avvicinarsi troppo a lei. Tutto questo è la mitologia che gli
occidentali che la vanno a trovare si aspettano di sentire da lei.
C'è un passaggio, un'interstizio nel libro della Michèle
Odeye-Finzi che è illuminante a questo riguardo. Dopo la presunta
scomparsa iniziatica nella foresta, dice Awa Seyni “tutti
pensavano che, anche se esternamente avessimo la pelle nera,
interiormente fossimo dei bianchi “.
Essere “bianchi” viene vissuto come un cambiamento ontologico,
l'avere assunto un nuovo status minaccioso e incomprensibile; non va
dimenticato che nelle popolazioni locali è ben viva la memoria della
tratta negriera e della colonizzazione e che il toubab
o in
joola alulum,
cioè il bianco è ancora un archetipo oscuro ed esotico di violenza
e dominio.
Awa
chiama il suo lavoro “un dono di
Dio” di cui lei non è che un mezzo. Nessun sogno, ma delle visioni
trascendenti a cui accede attraverso un medium rappresentato da
Kassine, simbolo e quintessenza della spiritualità joola. Awa Seyni
è una ceramista joola come tutte le sue colleghe, semplicemente la
sua perizia tecnica e la profondità del suo immaginario ci
restituiscono immagini di una forza straordinaria. E' vero che la
ceramica incorpora una grande varietà di pratiche rituali in cui si
esprime la spinta verso l'Assoluto di queste popolazioni, ma Awa
Seyni concepisce il suo lavoro come funzionale al gruppo di cui lei è
maman
che nutre, nello stesso modo che
qualsiasi ceramista farebbe vendendo le proprie opere al mercato.
Infatti continuo è il richiamo alla maternità, alle origini, alle
relazioni familiari, e alla centralità di queste nella comprensione
del mondo.
Il
mito non è “l’élément clef de ses
œuvres”. L'elemento iniziatico, il cosiddetto “bois
sacrée” è un elemento cardine del sistema educativo joola per
ragazzi e ragazze. Nel caso di Awa è stato enfatizzato nel racconto
in modo da essere conformi con il racconto molto “africano” che i
visitatori occidentali si aspettano di ascoltare e che fa tanto
“cuore di tenebra e misteriosa e divina iniziazione”, ma
anche « maschera, idolo e forte tradizione magica ».
Ma Awa, con la sua vita, denuncia anche la nostra inanità e la
nostra l'indifferenza per gli antenati che si esprime negli
stereotipi dell'arcaismo e del sottosviluppo.
Immagini: Massimo Golfieri, 2011.
* Di seguito solo alcune delle
presenze nel curriculum di Awa Camara:
Collezioni
e Musei
Biennale di Venezia, “Tribute a Seyni Awa Camara”
dell'IFAN e de Le Centre Culturel Francais Dakar Senegal, Museo
Brera di Milano, Museo Dany Keller Monaco di Baviera, Museo
Pinacoteca Agnelli Torino, Fondation Dosne-Thiers Parigi,
Ospitaletto Brescia, Palazzo Clerici Milano, Spazio Enzo Pifferi
Editore, Como, National Museum of African Art, Washington, DC, USA,
Scuderie Aldobrandini per l'Arte Frascati (RM), Protagonisti
dell’Arte Africana Contemporanea, Castel Dell’Ovo Napoli, V.A.C.
Le Moulin de Ventabren, Ventabren, France; Museo Grimaldi, Espace
Ravel, Montecarlo, Museum of Fine Art Houston, Houston, USA, Rocca
di Umbertide Contemporary Art Center, Perugia; “Il Ritorno Dei
Maghi”, Orvieto, Contemporary Art Cultural Center, Mexico,
Groninger Museum, Netherland, The Atlantic Center of Modern Art, Las
Palmas de Gran Canary, Spagna, Royal Ontario
Museum di Toronto Canada, Otto-Ritcher-Halle, Institutd Für
Auslandsbeziehungen, Landesmuseum, Oldenburger Kunstverein,
“Magiciens de la Terre”, Georges Pompidou Center, La Grande
Halles de la Villette. Paris. Fondazione Sarenco, Salò (BS),
Fabbrica Eos, Milano, Museo Art)&(Marges Bruxelles, Biennale di
Malindi (Kenya).
Gallerie
Kalao Bilbao (Spagna); Claire Corcia,
Galerie Africaine Visibilité Noire, Horizons, Viaduc des Arts,
Hôtel Mezzara de Guimard, Tilène e Nathalie Fiks di Parigi; NerArt
di Lugano, Ariete Arte contemporanea, “Sal8 di Syusy” Futuro
Arcaico, Alba Art e Spazia di Bologna, De Crescenzo & Viesti e
Emmeotto di Roma, Stella & Vega di Brest, Terra Viva,
Saint-Quentin La Poterie (Francia), Alfredo Viñas di Malaga,
Transarte di Rovereto, Ca' di Fra' Milano, Cavellini, Brescia,
L'Espace d'art Poitou-Charentes, RurArt, Rouille, France, Sangallo
ART Station Firenze, Médiathèque Lucie Aubrac Ganges (Francia),
Centre for Visual Arts of the University of KwaZulu-Natal
(SudAfrica), Fondation Zinsou, Cotonou, (Bénin).
Bibliografia
Mascelloni
E., Sarenco Seyni
Camara, 2008, Skira, Milano;
S.
Poggianella, M. Corgnati, Sarenco, A. Mohamed, Icone
d'Africa, 2006 Il Tucano,
Milano.
African Art Now:
Masterpieces from the Jean Pigozzi Collection Exhibition, 2005
Merrell, New York.
Martina Corgnati, Artiste:
dall'impressionismo al nuovo millennio,
Bruno Mondadori, Milano, 2004.
Tribal
Soul, Metropolitan Body. Contemporary
African, 2001, L'Artiere, Milano.
N'goné
Fall, Jean Louis Pivin, Anthologie de
l'art africain du XXème siècle,
2001, Revue Noire, Paris.
P. Mattioli,
Regine
d’Africa,
Fabbrica Sarenco, Adriano Parise Editore 2004
Milano;
L. Bourgeois, A. Magnin, J. Soulillou, Contemporary
Art of Africa. Seyni Awa Camara, 1996,
Harry N. Abraams, New York.
Michèle Odeye-Finzi, Solitude
d'Argile. Légende autour d'une vie.
1994 , L'Harmattan, Paris.
Africa
Hoy. Seyni Awa Camara, 1991, Las
palmas, Gran Canaria.
Jean Hubert Martin. Magiciens
de la Terre, 1989, editions du Centre
Pompidou, Paris.
Filmografia
e reportage giornalistici e fotografici
Fabrizio
Garghetti per Giornale dell'Arte, Milano, 2000.
Paola
Mattioli per Adriano Parise Ed. Milano, 2004.
Pierre Chanson,
Iconografo per Horizons, Parigi, 2007.
Claudio Composti per
Galleria Ca' di Fra', Milano, 2005
Emanuela Citterio per Vita,
Milano, 2006.
Gaia Gulizia per La Fabbrica del Vapore, Milano,
2004.
Silvia Forni, Earth's magician: renowned
internationally, Seyni Camara creates coveted earthen art,
monumental in more ways than one, ROM Magazine, Spring,
2011.
Seni's Children, Director: Philip Haas, USA. 1990.
55 minutes. Color.
Le
Ventre de la Terre, Director: Anne Bataille, France. 2009. 35
minutes. Color.
L'essenza
della Casamance, Director:
Emilio Navarino, 2004, Italia, 59 minutes. Color.
Volti
di Casamance, reportage
fotografico di Massimo Golfieri, Italia, 2011.