Il mondo di Awa Seyni Camara

    Invenzione di un “artista africana”

   Seyni Awa Camara è famosa in tutto il mondo e le sue sculture sono oggi opere profonde dell’Art Brut più autentica. Louise Bourgeois la considerava la più grande scultrice di terra vivente. Awa Camara è stata una delle nove donne tra i 100 artisti presenti a prendere parte alla prima pionieristica mostra sull'arte contemporanea africana “Magiciens de la Terre”, al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1989. E' stata la prima mostra a presentare artisti provenienti da diverse culture e continenti in una narrazione comune ampliando il concetto di contemporaneo al di là della sfera dell'arte occidentale. Da allora le sue opere fanno parte di tutte le più importanti collezioni mondiali, gallerie d'arte e musei a cominciare dalla “Jean Pigozzi”. Awa ha esposto veramente in tutto il mondo, è stata oggetto di monografie antropologiche, saggi e tesi sull'arte “brut”, registi di tutto il mondo gli hanno dedicato documentari, mentre critici d'arte e giornalisti hanno cercato di rappresentarne estetica e contenuti espressivi*.


Il risultato è stato quello dell'emergere di Awa quale “strano personaggio” dalle cui opere “emerge un mondo di personaggi enigmatici, di prole aureolate, giocosi e sfrontati”, un mondo “mistico laico”, uno ”strano mondo in cui Awa si è ritirata misticamente” quale “responsabile di una conoscenza pesante come un destino”. Le descrizioni di stampo essenzialista e etnicista con varianti addirittura di stampo spiritistico-animista su Awa si sprecano. Alla sua arte sarebbe stata “formata dai geni della foresta”, mentre la sua vita e le opere sarebbero “impregnati di un misticismo inerente spiriti dispettosi e pratiche animiste che caratterizzano i villaggi africani”, relegando così l'Africa intera nella sfera dei culti arcaici e delle pratiche precivili, rinforzando ancora una volta una presunta idea di un'uniformità culturale continentale nel segno dell'alterità inconoscibile e premoderna.

Non è vero, come sostengono alcuni « critici », sottolineando un presunto « radicamento ossessivo al suo linguaggio, ai luoghi ed alle mitologie della terra in cui è nata » che Awa Seyni Camara non ha mai lasciato la Casamance. Semplicemente Awa ama stare a casa sua, al suo posto, è perfettamente realizzata e rispettata nel suo villaggio e nella comunità di cui fa parte.

La storia di come la vita e le opere di Awa sono state rappresentate ha dell'incredibile. Nel migliore dei casi incontriamo descrizioni di tipo macchiettistico in cui si immagina un inesistente universo mitologico africano da cui deriverebbe l'estetica artistica di Awa, nel peggiore dei casi si inventano eventi e fatti completamente di sana pianta in modo da lasciare intravedere, dietro questi eventi, un primitivismo che può derivare solo da immaginari sottilmente razzisti e eurocentrici.



Vale la pena, a mio parere, ripercorrere sommariamente la quantità ed il tipo di menzogne che vengono fatte circolare su Awa, non tanto per denunciare chi applichi un tale riduzionismo etnocentrico, ma proprio per iniziare un percorso di riflessione e consapevolezza su quanto siano fittizi le nostre idee riguardo ad una presunta alterità delle popolazioni africane e di quanto invece il linguaggio dell'arte accomuni ogni donna ed ogni uomo nella contemplazione del trascendente, in Europa come in Africa.

Innanzitutto non è vero che « la terracotta, [sia] un materiale tutt’altro che tradizionale, in Casamance, e che Awa è l’unica donna scultrice del villaggio », come vedremo la terracotta ha una lunga tradizione in questa regione e che Awa proviene da un villaggio famoso in tutta la Casamance perchè specializzato nella produzione di terracotte utilitarie.

Un'altra invenzione di sana pianta riguarda il suo presunto « l'immaginario strettamente legato alle mitologie e ai misteriosi riti dei joola, l'etnia cui Seyni Camara appartiene ». Tanto per cominciare, come mostrerò in seguito, Awa non è joola e la Casamance si potrebbe descrivere forse come uno dei luoghi meno « etnici » del mondo, essendo una specie di melting-pot in cui non esiste la minima uniformità ne religiosa, ne linguistica, ne tanto meno culturale. Men che meno il lavoro di Awa è legato a mitologie e a riti joola: i joola della Casamance infatti sono uno dei pochi gruppi culturali del continente africano che non possiede mitologie; riguardo poi ai «misteriosi riti », va chiarito che nella religione tradizionale di questi gruppi c'è ben poco di misterioso e che nessun luogo di culto presenta icone e/o idoli antropomorfi come i lavori di Awa. Nella religione di tipo panteista, comunque monoteista, delle popolazioni joola non esistono «dee madri pronte ad allattamenti multipli e spericolati ».



La critica occidentale, nel suo furore tassonomico e analitico, ha tentato di classificare l’arte contemporanea africana distinguendo anche diverse correnti, in base alla formazione degli artisti, agli stili e al pubblico a cui sono destinate le opere. Per André Magnin e Jacques Soulillou l’elemento tradizionale è fondamentale e contiene un significato spirituale profondo che nutre gli artisti dal nord al sud del continente, insieme ad un senso della comunità che è ancora importante nell’arte contemporanea africana, seppur mutato nel tempo. Il testo Contemporary Art of Africa suddivide gli artisti in tre gruppi: territorio (a cui appartiene Awa Seyni Camara), frontiera e mondo.

Pierre Chanson si spinge ancora più in là. Definisce Awa « légende vivante de son village » da quando lei e i suoi due fratelli gemelli sarebbero stati « initiés à leur art par les génies de la forêt. » Addirittura per Chanson « Seyni et ses deux frères furent enlevés par les esprits de la forêt. » Durante questo « sequestro » Awa sarebbe stata iniziata ai «mystères de l'argile ». Dimenticando che le iniziazioni, i cosiddetti « boschi sacri », nella Casamance rurale fanno parte del percorso educativo e formativo di tutti i giovani, uomini e donne, e che vengono chiamati « spiriti » esclusivamente per sottolineare il carattere misterico e segreto che deve accompagnare, come intuito da Van Gennep, ogni rito di passaggio, Chanson azzarda che « le village tout entier décida de sacrifier quelques animaux pour apaiser les esprits, afin que Seyni et ses frères jumeaux reviennent enfin. Et ce fut effectivement le cas, selon la légende...».

Al trionfo dello stereotipo si arriva con le descrizioni di Awa Seyni Camara come una « scultrice sciamana », dimenticando che in Africa lo sciamanesimo non esiste. Un'altra invenzione di sana pianta è che « la tecnica della terracotta sono segreti [...] antichi come l'Africa ». Le moderne ricerche in ambito archeologico, proprio nella regione senegambiana dimostrano che è possibile ricostruire scientificamente l'evoluzione storica ed antropologica della filiera artigianale delle terracotte. L'immaginazione galoppa addirittura quando si arriva ad affermare che « l'immaginario della scultrice è legato alle mitologie dei joola, l'etnia a cui Seyni Camara appartiene, e ai loro riti esoterici. Non è un caso se le sue singolari Dee Madri sono cotte nella foresta, in una buca, secondo riti sciamanici a tutt'oggi misteriosi, perché nessuno vi può assistere. »



Inutile dire che Awa procede alla cottura delle sue opere nell'aia del suo atelier, non esistono riti esoterici e mitologie joola, che Awa non appartiene in modo esclusivo a nessun gruppo etnico specifico, anzi, come vedremo quando ci occuperemo della comunità di persone che convive nel compound dove si trova l'atelier, Awa interpreta piuttosto una sua modernità proprio perché non appartenente tout cour ad una sola identità, ma testimone piuttosto di una identità transeunte e inclusiva, molto pragmatica e relazionale, che si trasforma continuamente attraverso una ermeneutica del contemporaneo.

Claudio Composti definisce le opere di Seyni Awa « figure spettrali » che riproducono « un’iconografia che si rifà ai misteriosi riti dei joola, l’etnia a cui Camara appartiene: grandi e mostruose dee-madri antropomorfe nate dalla terra, spesso colte nell’allattare altrettanto informi cuccioli che sembrano germogliare dai loro stessi corpi, dee madri mostruose che sembrano allattare altrettanti piccoli esseri mostruosi che nascono e vivono dalle loro stesse costole. »

Siamo di fronte ad un inquietante cocktail di teoria rousseauniana del « buon selvaggio », mito conradiano stile « cuore di tenebra », il tutto condito con la solita alterità radicale ed inconoscibile che ha bisogno della civiltà per uscire da una condizione mitologica forse dovuta alla maledizione di Cam e che presuppone un doveroso intervento ordinatore esogeno, stile « il fardello dell'uomo bianco ». Le note da resoconto da viaggiatore ottocentesco si sprecano, poco importa se non hanno una verifica testimoniale e si riducano a descrizioni fantasiose, che nascono e muoiono nella fantasia dello scrivente, completamente prive di fondamento. Infatti è una invenzione di sana pianta che Awa Seyni effettui le cotture delle sue opere « nella foresta, in una buca, secondo riti sciamanici ancestrali e misteriosi, ai quali nessuno può assistere. », come detto in precedenza infatti Awa ha sempre effettuato le cotture nello spazio a questo destinato nell'aia della sua casa atelier. Io stesso ho assistito alla cottura, testimoniata da documentari e reportage fotografici, quindi nessun tabù « africano ».



« Ricche di quella magia e forza che solo l’Africa sprigiona (?!?), disposte come in una selva infernale nella sua piccola casa, accatastate in ordine di altezza. Magia e forza che danno a queste Dee-madri un’anima. Sculture dell’immaginario, che prendono forma di idoli che arrivano da lontano, da una cultura antica ed affascinante alla quale non possiamo sottrarci, come attratti da una misteriosa forza che nasce nel continente da cui tutti deriviamo, forse eco di quel “mal d’Africa” che abbiamo sopito dentro di noi ». Il cerchio si chiude, dopo aver saccheggiato umanamente, economicamente ed esteticamente un continente, ancora una volta l'Africa ci rigenera attraverso la misteriosa forza del « mal d'Africa », figura metaforica per connotare un qualcosa « che abbiamo sopito dentro di noi ».Anche per Emanuela Citterio le opere di Awa Seyni, tanto per cambiare, sono « dee madri di terracotta grondanti di figli

La connotazione principale è quella del mistero, secondo l'equazione Africa=alterità inconoscibile quindi non ordinabile secondo le nostre categorie: « uno dei misteri che la riguardano è come sia riuscita a bucare i confini geografici e culturali del continente africano, senza abbandonare il cortile di casa sua ». La vita di Awa Seyni viene definita come « una vita piena di misteri ».

Agevolata dal reportage di un esperto, un collezionista il cui nome d'arte è Sarenco, prosegue una penosa descrizione di come Awa si porrebbe, secondo lui, con gli ospiti. Awa, che contrariamente a quanto affermato non parla una parola di wolof, sarebbe una bizzarra venditrice che si rifiuterebbe di vendere le sue opere ad un occidentale di passaggio, se non dopo che quest'ultimo le abbia cooptato la benevolenza regalandole « una fascina intera di tabacco da masticare (peccato che Awa fumi la pipa e non abbia mai masticato tabacco)». Siamo al livello dell'incontro fra esploratore ed aborigeno a cui regalare delle perline colorate, per avere in cambio di pepite d'oro. La popolazione di Bignona è vista da questo signor Sarenco come delle persone senza civiltà, ne Storia e ne media, una specie di naufraghi dello sviluppo, che vivono ai margini ignari di tutto quello che li circonda. Mi spiace deludere questo signor Sarenco ma le persone che vivono in Casamance spesso hanno parenti in tutto il mondo, vivono calati in una modernità resiliente e vitale e attraverso la forza con cui affrontano la vita sono pieni di un senso di futuro e di speranza che forse sarebbe utile anche ai cosiddetti paesi del primo mondo.



Un'altro must quando si vuole fare retorica ed umanitarismo peloso coinvolgendo l'Africa sono i bambini. Per la coppia Sarenco-Citterio, come nelle pubblicità delle organizzazioni umanitarie, anche qui a casa di Awa Seyni i bambini « sono protagonisti ». E' facile a questo punto l'equazione psicologica da rivista femminile con la quale dal momento che « Awa non ha figli, c'è qualcosa di autobiografico nell'espressione dell'esasperata fertilità che caratterizza le sue opere. In Africa, dove non avere figli è uno stigma più che altrove. I bambini nel cortile sono i figli che suo marito, scomparso, ha avuto con altre mogli, oppure altri bambini del villaggio. Lei, donna scultrice senza figli, è una doppia eccezione nel popolo dei joola. Il nonno ha insegnato a lei la scultura solo perché era l'unica discendente: di solito è l'uomo a rapportarsi con il mondo animista. » Altre invenzioni di sana pianta: Awa ha imparato la ceramica in ambito femminile e, in Bassa Casamance le donne sono protagoniste e sacerdotesse dei culti tradizionali.

Gli stereotipi assumono un carattere inquietante e razziale quando si inventano completamente scenari inesistenti, con un'operazione di riduzionismo etnocentrico, soltanto per colorare di esotismo e di ingenuo arcaismo persone e scenari socio politici complessi come quelli della Bassa Casamance. Mi sembra estremamente improbabile che « i guerriglieri indipendentisti le abbiano distrutto le opere, accusandola di tradimento», come racconta Sarenco, infatti per il maquis sarebbe come distruggere una potenziale fonte di reddito visto che i ribelli hanno la loro fonte di finanziamento proprio imponendo commissioni e dazi a tutto ciò che viene esportato da questa regione.

Veramente tragicomica la descrizione di Sarenco di come Awa avrebbe ripreso a fare sculture di terra: secondo lui c'è stato bisogno che arrivasse « Jean Hubert Martin, l'ex direttore del Pompidou perchè Awa Seyni continui a dare forma alle sue terrecotte. Completamente inventata, quasi offensiva è poi la descrizione di Sarenco di Awa Seyni al lavoro: per Sarenco le opere di Awa sarebbero « state impastate nella terra, poi va da sola nel bosco e scava grandi buche dove fa cuocere le sue sculture. Accende il fuoco e danza frenetica, con gesti e parole da sacerdotessa. Quando tutto è finito si quieta, tira fuori le sue sculture e le porta via. ». Inutile sottolineare che non esiste niente di tutto questo, nessuna foresta, non esistono grandi buche, nessuna danza frenetica e men che meno nessun gesto e parola da sacerdotessa. Mi sembra strano che «del successo delle sue opere le importa poco», come dice Sarenco, perché io stesso ho acquistato diversi lavori di Awa Seyni ed ho consegnato il denaro nelle sue mani e posso testimoniare quanto gli interessasse.



Per Gaia Gulizia, come per altri, abbiamo la riproposizione delle stesse categorie, per lei infatti l'arte di Awa è « un'arte ancestrale, il cui linguaggio artistico è profondamente legato alla mitologia del suo popolo, e la creazione delle sue sculture avviene secondo un rituale quasi magico, a cui nessuno può assistere. I suoi soggetti sono imponenti Dee Madri che assumono i più svariati aspetti, ritratte spesso con loro piccoli,oppure esseri multiformi che appaiono come maestosi ed immaginifici totem, ed ancora coppie unite in un unico corpo. Il materiale usato è la terracotta, affatto tradizionale nella regione della Casamance dove Seyni Camara vive. Secondo quanto lei stessa afferma, Seyni Camara sogna le sue creature, che alla luce del sole diventano creazioni. Ed il soffio del sogno aleggia ancora e sempre su queste sculture al tempo stesso profondamente radicate nella terra d'Africa. Un'arte ed un'artista essenziali, pure perché scevre da qualsiasi interferenza esterna a sé, che si nutrono solo della terra in cui nascono e crescono. » Inutile ripetere quanto detto precedentemente, ma vale la pena dedicare alcune parole su come, senza nessun pudore, ci si sente autorizzati a riproporre una serie di luoghi comuni falsi e fuorvianti. Nessun rituale magico tabù, nessuna icona totemica, nessun sogno che alla luce del sole diventa creazione, ma una artista meticcia, ponte fra un mondi contemporanei in cui, come diceva Eraclito « panta rei ».

Nessuna forma « che arriva da un mondo ancestrale, da una civiltà sopravvissuta che ancora ha la forza di attirare l'uomo contemporaneo e che può rappresentare una foresta primordiale dove l'essere vivente è albero, è sasso, è scimmia, è sole, è vento, è cascata ». Awa piuttosto vive la sua modernità ponendosi continuamente, con il suo gruppo, quale soggetto in movimento: da una parte i giovani del gruppo e la loro spinta rinnovativa, però simbolicamente mitigata dalla duplice condizione, per certi versi contraddittoria, di ostinato individualismo e di assoluto rispetto delle regole politico-religiose che stanno alla base dell’idea del Diritto consuetudinario, cioè “marane mata lisituba” « les manières de faire e de se comporter, du temps des pères et des ancêtres ». Awa Seyni, per certi versi, interpreta una soggettualità di resilienza, intesa come la capacità di autoripararsi dopo un danno e di capacità di tornare ad uno stato simile a quello iniziale dopo avere subito uno stress. Per certi versi l'intera Africa coloniale ha rappresentato una straordinaria palestra di resilienza, avendo subito una radicale sottrazione di risorse e di plusvalore attraverso la tratta negriera prima, con la colonizzazione poi, per finire con il saccheggio delle risorse naturali irriproducibili nell'attuale fase di economia globale.



Sono d'accordo con quanto afferma Martina Corgnati che “fra le artiste integrate in società tradizionali, è particolarmente frequente la deviazione rispetto alla regola e alle consuetudini della loro cultura, cioè una certa originalità molto apprezzata dalla nostra idea di arte. E' questo il caso di Seyni Awa Camara che ha utilizzato la tipica tecnica di produzione di terrecotte per realizzare oggetti completamente diversi e straordinari. Per lo più sono grandi madri assediate da una prole famelica, raccolte in un abbraccio siamese, già separata e ancora parte del loro corpo, oppure uccelli issati sopra la terra su piedi e gambe umane, caricati anch'essi di una figliolanza tanto invadente quanto numerosa, che compromette la loro stessa integrità fisica; si tratta sempre di singolari ibridi-idoli dalle moltissime teste, gambe e braccia.

Ha ragione Sergio Poggianella quando scrive che occorre « porre l’accento sull’autonomia dei processi creativi degli artisti nati e operanti in Africa » e che è importante ridicolizzare e definitivamente combattere la categorizzazione geografica che è in essa implicita. Poggianella, che con Transarte propose “Icone d’Africa. Scultura Africana Contemporanea”, rassegna di alcuni tra i maggiori artisti africani (Seyni Awa Camara compresa), sostiene che occorre rivedere e ripensare la supponenza delle nostre istituzioni culturali evitando categorizzazioni di una realtà ritenuta esotica e di un'alterità radicale, riconoscendo che « la produzione artistica africana, pur attingendo a pratiche, temi e simbologie della tradizione si è sempre più svincolata dalla “politica dell’identità” e, soprattutto dagli anni Ottanta, ha raggiunto una maturità, una consapevolezza ed una originalità tali da non richiedere più esclusivamente una lettura etno-antropologica. »

Awa Seyni Camara è una maman adottiva, un'artista profondamente legata alla sua comunità e che trova la sua realizzazione personale nell'essere perfettamente integrata, sia sul piano sociale che su quello religioso, nel tessuto sociale di provenienza. Quindi nessun concetto fumoso ed opaco come la cosiddetta « magie de son immense continent (l'Afrique) », nessun « génies de la forêt qui l'ont guidée dans sa création artistique », nessuna « créations oniriques », nemmeno nessuna « solitude », semplicemente il realizzarsi ontologicamente come donna, da un lato resiliente e « che nutre », dall'altro attraverso una profonda spiritualità con cui legge il mistero del lògos divino.



Per Silvia Forni antropologa del Royal Ontario Museum “le sue figure umane e animali sono diverse da qualsiasi altro prodotto della regione”. Cogliendo l'aspetto relazionale la Forni sottolinea il fatto che le opere di Awa “sono popolate da volti, braccia, seni, e le persone sono legate tra loro da collegamenti fisici e simbolici [...] Awa rivisita i suoi temi quasi ossessivamente, gli animali e gli esseri spirituali che vivono nella foresta, le coppie, il matrimonio e il sesso, ma anche i familiari e gli antenati”. Effettivamente come intuito dalla Forni all'interno della scena dell'arte contemporanea senegalese Camara è qualcosa di un estraneo”.

A differenza della figura politicamente corretta dell'”artista africano” che non vede l'ora di entrare nel sistema dell'arte occidentale, Awa appare come una persona completamente realizzata nella sua comunità. E' nel suo tessuto sociale che Awa si realizza come persona, infatti il suo compound non si differenzia in nulla dalle costruzioni in bancò del resto del villaggio. Awa come vera maman joola vive e lavora negli spazi che si affacciano sul cortile comune, lavando i vestiti, preparando il cibo, organizzando la vita del gruppo famigliare allargato (non bisogna dimenticare che è Awa a tenere i cordoni della borsa ed ha organizzare la circolazione del danaro famigliare).

L'unico segno di qualcosa di diverso è una scritta sopra la porta principale "Seyni Camara e Samba Diallo, artisti in Bignona", mai rimossa nonostante Samba Diallo, l'ultimo marito di Awa, sia morto già da quasi 8 anni. Dopo la morte di Diallo, Camara ha fatto affidamento su numerosi giovani, figli delle altre mogli di Samba, per gestire il suo lavoro ed aiutarla nel duro lavoro della filiera dell'argilla. La casa di Awa è piena dei ragazzi del quartiere e questo non è un fatto marginale nella sua vita, anzi personalmente ritengo che sia la chiave per comprendere appieno lo status di vera maman joola che è la vera dimensione ontologica che offre spessore, originalità ed autenticità alle sue opere.



Nessun culto di possessione, nessuna scomparsa iniziatica nella foresta, nessuna “invisibilità” nessun linguaggio “corporeo delle emozioni”, nessuna espressione fisica di profondo disagio e marginalità, nessuna emarginazione nella propria comunità non è vero che la maggior parte dei suoi vicini preferiscano non avvicinarsi troppo a lei. Tutto questo è la mitologia che gli occidentali che la vanno a trovare si aspettano di sentire da lei. C'è un passaggio, un'interstizio nel libro della Michèle Odeye-Finzi che è illuminante a questo riguardo. Dopo la presunta scomparsa iniziatica nella foresta, dice Awa Seyni “tutti pensavano che, anche se esternamente avessimo la pelle nera, interiormente fossimo dei bianchi “. Essere “bianchi” viene vissuto come un cambiamento ontologico, l'avere assunto un nuovo status minaccioso e incomprensibile; non va dimenticato che nelle popolazioni locali è ben viva la memoria della tratta negriera e della colonizzazione e che il toubab o in joola alulum, cioè il bianco è ancora un archetipo oscuro ed esotico di violenza e dominio.

Awa chiama il suo lavoro “un dono di Dio” di cui lei non è che un mezzo. Nessun sogno, ma delle visioni trascendenti a cui accede attraverso un medium rappresentato da Kassine, simbolo e quintessenza della spiritualità joola. Awa Seyni è una ceramista joola come tutte le sue colleghe, semplicemente la sua perizia tecnica e la profondità del suo immaginario ci restituiscono immagini di una forza straordinaria. E' vero che la ceramica incorpora una grande varietà di pratiche rituali in cui si esprime la spinta verso l'Assoluto di queste popolazioni, ma Awa Seyni concepisce il suo lavoro come funzionale al gruppo di cui lei è maman che nutre, nello stesso modo che qualsiasi ceramista farebbe vendendo le proprie opere al mercato. Infatti continuo è il richiamo alla maternità, alle origini, alle relazioni familiari, e alla centralità di queste nella comprensione del mondo.

Il mito non è “l’élément clef de ses œuvres”. L'elemento iniziatico, il cosiddetto “bois sacrée” è un elemento cardine del sistema educativo joola per ragazzi e ragazze. Nel caso di Awa è stato enfatizzato nel racconto in modo da essere conformi con il racconto molto “africano” che i visitatori occidentali si aspettano di ascoltare e che fa tanto “cuore di tenebra e misteriosa e divina iniziazione”, ma anche « maschera, idolo e forte tradizione magica ». Ma Awa, con la sua vita, denuncia anche la nostra inanità e la nostra l'indifferenza per gli antenati che si esprime negli stereotipi dell'arcaismo e del sottosviluppo.






Immagini: Massimo Golfieri, 2011.


* Di seguito solo alcune delle presenze nel curriculum di Awa Camara:

    Collezioni e Musei

    Biennale di Venezia, “Tribute a Seyni Awa Camara” dell'IFAN e de Le Centre Culturel Francais Dakar Senegal, Museo Brera di Milano, Museo Dany Keller Monaco di Baviera, Museo Pinacoteca Agnelli Torino, Fondation Dosne-Thiers Parigi, Ospitaletto Brescia, Palazzo Clerici Milano, Spazio Enzo Pifferi Editore, Como, National Museum of African Art, Washington, DC, USA, Scuderie Aldobrandini per l'Arte Frascati (RM), Protagonisti dell’Arte Africana Contemporanea, Castel Dell’Ovo Napoli, V.A.C. Le Moulin de Ventabren, Ventabren, France; Museo Grimaldi, Espace Ravel, Montecarlo, Museum of Fine Art Houston, Houston, USA, Rocca di Umbertide Contemporary Art Center, Perugia; “Il Ritorno Dei Maghi”, Orvieto, Contemporary Art Cultural Center, Mexico, Groninger Museum, Netherland, The Atlantic Center of Modern Art, Las Palmas de Gran Canary, Spagna, Royal Ontario Museum di Toronto Canada, Otto-Ritcher-Halle, Institutd Für Auslandsbeziehungen, Landesmuseum, Oldenburger Kunstverein, “Magiciens de la Terre”, Georges Pompidou Center, La Grande Halles de la Villette. Paris. Fondazione Sarenco, Salò (BS), Fabbrica Eos, Milano, Museo Art)&(Marges Bruxelles, Biennale di Malindi (Kenya).

    Gallerie

    Kalao Bilbao (Spagna); Claire Corcia, Galerie Africaine Visibilité Noire, Horizons, Viaduc des Arts, Hôtel Mezzara de Guimard, Tilène e Nathalie Fiks di Parigi; NerArt di Lugano, Ariete Arte contemporanea, “Sal8 di Syusy” Futuro Arcaico, Alba Art e Spazia di Bologna, De Crescenzo & Viesti e Emmeotto di Roma, Stella & Vega di Brest, Terra Viva, Saint-Quentin La Poterie (Francia), Alfredo Viñas di Malaga, Transarte di Rovereto, Ca' di Fra' Milano, Cavellini, Brescia, L'Espace d'art Poitou-Charentes, RurArt, Rouille, France, Sangallo ART Station Firenze, Médiathèque Lucie Aubrac Ganges (Francia), Centre for Visual Arts of the University of KwaZulu-Natal (SudAfrica), Fondation Zinsou, Cotonou, (Bénin).

    Bibliografia

    Mascelloni E., Sarenco Seyni Camara, 2008, Skira, Milano;
    S. Poggianella, M. Corgnati, Sarenco, A. Mohamed,
    Icone d'Africa, 2006 Il Tucano, Milano.
    African Art Now: Masterpieces from the Jean Pigozzi Collection Exhibition, 2005 Merrell, New York.
    Martina Corgnati,
    Artiste: dall'impressionismo al nuovo millennio, Bruno Mondadori, Milano, 2004.
    Tribal Soul, Metropolitan Body. Contemporary African, 2001, L'Artiere, Milano.
    N'goné Fall, Jean Louis Pivin, Anthologie de l'art africain du XXème siècle, 2001, Revue Noire, Paris.
    P. Mattioli,
    Regine d’Africa, Fabbrica Sarenco, Adriano Parise Editore 2004 Milano;
    L. Bourgeois, A. Magnin, J. Soulillou,
    Contemporary Art of Africa. Seyni Awa Camara, 1996, Harry N. Abraams, New York.
    Michèle Odeye-Finzi,
    Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie. 1994 , L'Harmattan, Paris.
    Africa Hoy. Seyni Awa Camara, 1991, Las palmas, Gran Canaria.
    Jean Hubert Martin.
    Magiciens de la Terre, 1989, editions du Centre Pompidou, Paris.

    Filmografia e reportage giornalistici e fotografici

    Fabrizio Garghetti per Giornale dell'Arte, Milano, 2000.
    Paola Mattioli per Adriano Parise Ed. Milano, 2004.
    Pierre Chanson, Iconografo per Horizons, Parigi, 2007.
    Claudio Composti per Galleria Ca' di Fra', Milano, 2005
    Emanuela Citterio per Vita, Milano, 2006.
    Gaia Gulizia per La Fabbrica del Vapore, Milano, 2004.
    Silvia Forni, Earth's magician: renowned internationally, Seyni Camara creates coveted earthen art, monumental in more ways than one, ROM Magazine, Spring, 2011.
    Seni's Children, Director: Philip Haas, USA. 1990. 55 minutes. Color.
    Le Ventre de la Terre,
    Director: Anne Bataille, France. 2009. 35 minutes. Color.
    L'essenza della Casamance,
    Director: Emilio Navarino, 2004, Italia, 59 minutes. Color.
    Volti di Casamance,
    reportage fotografico di Massimo Golfieri, Italia, 2011.



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