Awa Seyni Camara. Corpo resiliente.

Seyni Awa Camara nella sua corte, Immagine Massimo Golfieri, 2011.





"Il significato e la dignità dell'amore, inteso come sentimento, dipendono dal fatto che esso ci costringe a riconoscere nell'altro, realmente e con tutto il nostro essere, quello stesso valore centrale e assoluto che, in forza dell'egoismo, noi ammettiamo soltanto in noi stessi, sino a determinare lo spostamento del centro stesso della vita personale". (da Vladimir Sergeevič Solov'ëv, "Il significato dell'amore e altri scritti", p. 102)


Per avvicinarsi alla vita ed alle opere di questa Seyni Awa Camara occorre un'operazione preventiva. E' necessario purificare il nostro sguardo da una serie di impliciti naturalizzati che, se non opportunamente interiorizzati, corrono il rischio di farci cadere in rappresentazioni false, fuorvianti se non dichiaratamente etnocentriche. Occorre compiere una deafricanizzazione radicale del nostro sguardo, in modo da cogliere quanto di comune, umano, contadino e femminile. Purificarci dalle presunte alterità irriducibili, dalle differenze formali e dalla vulgata occidentalocentrica per cogliere invece quello che c'è di universale, di condiviso per trovare, con coraggio, le ragioni per potere finalmente aprire un nuovo modo di interagire fra mondi culturali (solo apparentemente) lontani.

Occorre cogliere la complessità del mondo globale, molteplice, antinomico dell'espressione estetica di questa grande artista senegalese. Un mondo di donne, maternità mater-ia, che nutrono bambini/adulti insaziabili, un mondo da cui emergono i caratteri di incommensurabilità delle entità ambientali, biologiche, etologiche e spirituali, la loro intima connessione e le modalità con cui questi caratteri si incorporino nelle vite, nelle cose e nei fenomeni.


La cucina nella corte di Seyni Awa Camara, Immagine Massimo Golfieri, 2011.

Lo sguardo di Awa non è un io appropriativo, personale, rapace ed ordinatore, soggettivo, calato nel relativismo delle estetiche contemporanee. Awa Seyni non è una aseità monade che descrive se stessa. Collocata vicino alle cose in modo ieratico, si ritiene puro mezzo, strumento nelle mani del tout-puissant di cui si pone al servizio e dialoga ininterrottamente. Compiaciuta ed onorata del privilegio della forma pura, si allontana impercettibilmente anche se radicalmente, dalla forma biologica dell'elemento argilla/terra che manipola e trasmuta. La gioia del dono ricevuto si riverbera nell'ironia intima e materna a cui le sue opere rimandano. Cara Awa, davvero, “i frutti puri impazziscono”.

Una conoscenza vera "postula tra il conoscente e il conosciuto un rapporto nel quale siamo uniti a vicenda non in modo esteriore e casuale, non nel fatto materiale della sensazione e nella forma logica del concetto, ma in un nesso essenziale e interiore, nei fondamenti stessi del loro essere, ossia in ciò che è assoluto in ambedue.i"


Due dei "figli" di Awa Aliou Mamadou e Ibrahim, Immagine Massimo Golfieri, 2011.

Secondo Florenskij, ogni forma di cultura consiste nell’organizzazione di uno spazio. Quindi lo spazio della rappresentazione artistica è “la concezione del mondo nella concezione dello spazio”. Più precisamente Florenskij riconosce un modello concettuale per ogni attività, da quella costruttivo / creativa a quella conoscitiva, nella tripartizione “cose – ambiente – spazio”: le “cose” sono i dati primitivi, gli oggetti, elementi materiali o mentali che vivono in uno specifico “ambiente” il quale, in un senso generale, costituisce la logica della loro esistenza e permette che in esso vengano trasformate, mentre lo “spazio” è una configurazione fondamentale del pensiero, invariante rispetto alle trasformazioni, che prende forma dall’ambiente ed a sua volta gli dà senso nel rapporto con le cose. La “spazialità” di Florenskij è il complesso di relazioni che legano fra di loro in maniera stabile e compatibile queste tre componenti, le quali si trovano, in un’opera d’arte come in una teoria, l’una in rapporto all’altra: “… spazio e realtà intesi separatamente non esistono”. Lo spazio esprime l’unità concettuale del rapporto fra le cose ed il loro ambiente che viene mediato dalle trasformazioni.

Le forme devono essere comprese secondo la “loro propria” vita, rappresentate attraverso se stesse, conformemente a come sono state concepite: “…lo spazio stesso non è soltanto un luogo omogeneo e senza struttura, né una semplice casella, ma è a sua volta una realtà particolare, interiormente organizzata, dovunque differenziata, sempre dotata di una struttura e di un ordine interiore”. L’invenzione dello spazio è per Florenskij non la scoperta o la messa a punto di una nozione, ma un’autentica invenzione del rapporto interpretativo sia del mondo fisico che dei fatti della cultura, che allude direttamente alla creatività dell’attività umana. Continua Florenskij sottolineando che “nell’arte lo spazio dell’opera è il nocciolo stesso, ciò che si dà creativamente, e la forma stessa dell’opera. Tutto il resto è materia”.


Un altro dei "figli" di Awa, Samsidine Diallo, Immagine Massimo Golfieri, 2011.

Awa Seyni nel suo lavoro cerca di attingere alla memoria e alla tradizione, recuperando un'arte che ancora lavora sulla materia mater, cercando di dare alla propria espressione un linguaggio che coinvolge il personale, ma allo stesso tempo è aperto ad una reale condivisione con gli altri. Dunque un'arte che recupera la missione del servizio, un'arte che tesse le relazioni tra le persone, perché comunica qualcosa che supera semplicemente uno stato d'animo del soggetto.

Nell'arte di Awa, il rapporto fra «costruzione» oggettiva e «composizione» personale (ossia fra tradizione e invenzione, in Simone Weil fra «dovere» e «capriccio») sono entrambe forme di quello che la stessa Simone Weil chiamava il metaxù, la ratio mediatrice, il «ponte» continuamente intrecciato e gettato dall’artista (con inevitabile ascesi e separatezza transmondana) fra l’onnipotenza gridata e violenta del visibile e quella silenziosa e sottile dell’invisibile. Se ogni arte è trasformazione di questo o quel materiale e infusione in esso di una forma nuova, di origine superiore, il lavoro spirituale non è altro che una trasformazione di tutto l’essere umano che produce la bellezza, riflesso del trascendente.

Nel mondo di Awa c'è la storia di una donna contemporanea, di una modernità mondializzata in transito, sulla soglia di mondi e culture che si incontrano, si relazionano e, attraverso questo lògos spirituale, si trasformano. Il mondo di Awa è esperienza incorporata che diventa connaissance, nel senso etimologico del termine di nascita collettiva di una comunità, sapienza sapit quale sapere esperienziale che deriva dalle radici culturali e spirituali di una civilizzazione in cui la “personnalité ethnique et esprit communautaire joola sont éminemment géographique, tandis que pour la plupart des populations qui les environnent, elle reste essentiellement biologique”, realizzando così “une véritable fraternité” a cui il joola partecipa “de tout son être qui est uni”.

L'essere-nel-mondo in Awa si realizza attraverso l'uscire da sé, un autoannichilimento che rende della forma al suo mondo. Una devozione, un surrender, una distanza da riempire fra un sé mortifero e meschino ed un “Altro” divino in cui fondersi attraverso un processo di omousia come un ponte tra il mondo visibile e quello invisibile, tra la somiglianza e l’identità, tra la veste estetica e il corpo etico-spirituale dell’Essere che viene evocato ed «inscenato».


Opere di Awa in fase di essicazione, Immagine Giovanni Guerra, 2008.

L'energheia implicita che rende forma e simbolo al mondo di Awa, proviene dalla profondità dello status degli antenati. E' tramite loro che il divino “parla” attraverso Awa che così, scomparendo paradossalmente si realizza completamente nel suo tessuto sociale. La donna che pro-crea è una delle visioni che nutrono la sua ontologia, infatti ora Awa, chiamandoli sacrifici e charités, nutre una grande famiglia allargata che comprende almeno quattro gruppi familiari, più un numero imprecisato di giovani che a lei fanno riferimento. Una vera e propria comunità baay fallii, in una regione dalla forte tradizione legata alla Religione Tradizionale, gestita da una donna, Awa Seyni, che è stata battezzata cristiana cattolica, per poi passare all'Islam con il primo matrimonio.

Una energheia che tracima, emanata da questa potente, rispettata e temuta maman che nutre la comunità con la quale condivide la vita. Ma la sua non è una volontà di dominio quanto una logica di dono e servizio. Awa infatti non disdegna di lavare i vestiti, di preparare la cucina, di occuparsi della gestione delle esigue risorse del gruppo (è lei a reggere i cordoni della borsa).


Aliou Mamadou e, sullo sfondo una statua di Awa,
Immagine tratta da "Le ventre de la terre", Anne Bataille, 2009.

E' la sua vita, in primis, ad essere un'opera d'arte di condivisione, compassione, rispetto, di maternità se non biologica, culturale e di fratellanza. Non parlo di esotismi e di alterità, la storia dell'Africa, come quella di qualsiasi parte del mondo, è una storia di connessioni, interdipendenze, coevità e destini comuni. Naturalmente parlare di Casamance significa anche parlare di un conflitto che si protrae da quasi 30 anni, di sofferenze e privazioni inaudite, ma anche di esperienze di emancipazione e di cambiamento sociale.

Awa Seyni Camara, madre africana senza figli è una donna circondata da decine di figli, ha fatto suoi i temi dell’affettività, della solidarietà e dell’amicizia. Davanti al suo atelier, l'aia di casa è sempre popolata di gente e di bambini, la sua arte è una giungla corporea che si materializza in figure a due gambe su cui poggiano grovigli di teste, piedi, mani e seni. Le donne incinta, donne ricoperte di bambini ovunque, incollati al corpo, bambini ovunque, enormi leoni, maiali, cani, cavalli, scimmie, ma anche moto, aerei. Fare terracotte è la forza trainante della sua esistenza, fonte di sostentamento per una intera comunità e forma del trascendente. Gli altri esseri sono inseparabili da lei come lei stessa dalla sua arte, se la sua stessa identità è formata dal tessuto delle relazioni in cui è coinvolto, allora ogni autentica cura verso se stessa coincide con l’agire responsabile nel contesto che la comprende.


Il Lògos universale, una statua di Awa,
Immagine tratta da "Le ventre de la terre", Anne Bataille, 2009.

Diceva a proposito Florenskji “I figli non sono ‘altri’, ma il mio stesso Io…. I figli anche volendo non potrei percepirli dall’esterno. Ecco perché, quando mi chiedono ‘ha molti figli?’, oppure ‘quanti figli ha?’, non so cosa rispondere: infatti molti e quanti si riferiscono a ciò che è omogeneo, ad unità che stanno una fuori dall’altra e all’esterno di colui che conta. Mentre i figli li percepisco a tal punto dal didentro, ognuno come qualitativamente diverso dall’altro, che non posso contarli e non posso dire se siano pochi o tanti. Quanto e molto sorgono là dove le unità sono sostituibili. Invece ognuno dei figli è insostituibile, e perciò essi non sono né tanti né pochi”.

In Awa si realizza l'accostamento di due modernità: quella della donna joola che attinge dalla sua profonda territorializzazioneiii per riformulare e rivalorizzare il presente e la contemporaneità resiliente, tipica dei paesi che hanno subito tratta negriera, colonialismo e saccheggio delle risorse naturali e umane attraverso la mondializzazione neoliberista. Per comprendere Awa occorre uscire delle categorie dell'etnico e del folklorico, come da quelle dello sviluppo e sottosviluppo e provare a leggere semplicemente quanto, nel nord come nel sud del mondo, tutti viviamo il lògos di una condizione comune che, consapevolmente, si trasforma.

Awa vive status paralleli, l'essere donna, madre mater maman senza procreazione, artista e ceramista tradizionale ed innovativa, ma anche corpo femminile resiliente nell'Africa della globalizzazione. Per esempio in lei si constata l'inconsistenza dei pregiudizi fondamentalisti e settari delle barriere confessionali, la sua è una religiosità profondamente spirituale e radicata, ma questo non ha impedito di transitare fra Cristianesimo, Islam e Religioni territoriali senza che questo toccasse minimamente la sua fede radicale nel Divinità assoluta di cui lei si dice semplice serva e tramite.


Fallou al lavoro, sullo sfondo un āyāt del Corano e l'icona di Cheikh Amadou Bamba,
Immagine Massimo Golfieri, 2011.


E' la fraternità comunitaria lo spazio in cui si dissolvono i pregiudizi ed i luoghi comuni su cultura, religione, economia e civiltà. Una comunità sufi musulmana dove non si prega e in cui un'artista donna è leader e raffigura forme antropomorfe, anche atti sessuali espliciti, in locali con le āyāt del Corano dipinti alle pareti; dove però tutti coloro che compongono questa comunità rispettano fedelmente il sistema di prescrizioni e l'ordine dei gris-gris derivante dalla religiosità basica.

Awa incarna una biografia calata profondamente nella storia della sua terra. Una terra in cui, per mezzo dell'elemento basico dell'argilla (ma non solo, anche le essenze vegetali della farmacopea tradizionale e le specie di conchiglie che completano la poterie utilitaria) lei si fonde fisicamente, che letteralmente abbraccia, da cui lei stessa emerge, facendosi pontifex, creatrice di ponti, facendo sorgere dall'elemento locale naturale, l'argilla, un “altro mondo”, trascendente ed abissale. Un mondo in cui la modernità si dispone in forme che sembrano non rispettare l'apparenza speciosa del senso letterale e che sono simboli di una verità di natura che ama sempre nascondersi.


Strumenti di lavoro di Seyni Awa Camara, Immagine Massimo Golfieri, 2011.


Awa è un fenomeno unico nel suo genere, personaggio complesso e potente, impressionante e di una autenticità a volte dura e imperscrutabile, è un genio a cui non interessa essere riconosciuta come tale, e come i Santi, non ha la consapevolezza di esserlo. Awa Seyni Camara è una ceramista, anche se questo titolo non esprime completamente la sua artisticità iconografica e relazionale. Awa è una vera e propria «sculptrice de terre» le cui opere riflettono del mondo trascendente, del lògos che relaziona l'uomo con i suoi simili e l'ambiente che, come Madre Terra, ci parlano di una dimensione transumana parallela. Awa è una artista che non si dichiara tale, infatti non fa che ripetere candidamente che è Dio ad averle donato questa sapienza, che lei non utilizza per se stessa, ne contro qualcuno o qualcosa, ma che lei traspone nelle sue opere.

Awa è nata in un arco di tempo che va dal 1939 al 1945 e vive non, come indicato delle sommarie schede biografiche dei “critici” occidentali, “in un piccolo villaggio nel cuore della foresta (!)”, ma a Bignona che è la capitale del dipartimento del Fogny e, nelle teorizzazioni delle forze indipendentiste che da 25 anni conducono una lotta armata contro il Senegal, potenzialmente uno dei centri principali della “regione delle 3B” con Banjul e Bissao. Bignona è un importante centro a forte connotazione culturale joola, diversamente di Ziguinchor, la capitale regionale, che invece è una specie di melting-pot d'origine coloniale. Per capire la forza e la modernità di una persona come Awa occorre, come per qualsiasi personalità in ogni parte del mondo, comprendere il contesto geografico, politico, culturale in cui è calata e il modo in cui, attraverso il suo essere-nel-mondo, Awa sia arrivata a incarnare ontologicamente l'archetipo della donna casamancese.

La regione della Casamance è divisa in tre aree, in linea di massima omogenee dal punto di vista culturale, etnico e religioso. Mentre le regioni poste ad est del Soungrougroui sono abitate da popolazioni la cui struttura politico-sociale è centralizzata e dipende storicamente da un lungo percorso storicoii, la Bassa Casamance che si estende ad ovest è definita da Jean Girard “…una terra di rifugiati dove vivono o cercano rifugio diverse popolazioni paleo-negroidi che arrivano dalle province orientali spinte dalle ondate di conquistatori prima mandinghi poi peuliii. La Bassa Casamance, ed in particolare il dipartimento di Bignona, rappresenta forse uno dei luoghi dove, diversamente che altrove in Africa occidentale, la colonizzazione e il nuovo ordine postcoloniale non ebbero mai una reale penetrazione. La regione era percepita dai colonizzatori come un caos politico e una miscellanea di “razze” apparentemente anarchica. Sul piano militare la conoscenza del territorio e della sua conformazione (un labirinto di risaie inondabili, bolong, bracci di mare e foreste), consentiva alle popolazioni autoctone di scomparire rapidamente per poi attaccare utilizzando tecniche di guerriglia. La durezza del clima e le malattie facevano il resto.

Ma ancor più delle specificità geografiche e territoriali, erano dilemmi d’ordine politico e culturale a determinare l’impasse con cui dovevano fare i conti le autorità coloniali prima e senegalesi poi. In altre parole, erano incapaci di comprendere un’alterità che riducevano ad un primitivismo politico, economico e sociale, ad anarchia politica, ad una barbarie nel senso morale del termine, senza nemmeno le connotazioni esotiche del “buon selvaggio”. Irriducibile dal punto di vista politico, melting-pot dal punto di vista etnico e culturale, la Bassa Casamance si distingueva per lo statuto radicalmente diverso che veniva assegnato alle donne rispetto agli imperi ed i regni che la circondavano a nord (wolof, toucouleur, serer, etc.) ed a est (mandengue e peul).

Le donne e le loro modalità femminili d’opposizione hanno recitato un ruolo chiave nelle strategie di resistenza al sistema coloniale ed al sistema giacobino del nuovo stato senegalese. Dal momento che si era poco inclini ad occuparsi di questa parte della popolazione, era strano constatare che, come gli uomini, le donne partecipavano alla resistenza anche armata a pieno titolo. Ma, al di là delle tecniche di guerriglia, vedremo come le donne abbiano utilizzato strumenti “culturali” d’opposizione passiva molto efficaci.

Nella società joola, di tipo egalitario e con un potere politico non centralizzato, ma con una struttura essenzialmente patrilineare del butoŋiv, il ruolo femminile è molto più importante rispetto agli altri gruppi del paese. A causa dell’organizzazione individualizzata della concessione fondiaria o hankv, gli uomini non potevano avere un controllo diretto sulle loro mogli, sorelle e nipoti. Non esisteva controllo sulla verginità e sull’escissione. A condizione di rispettare le regole di esogamia, le donne potevano scegliere il loro marito ed avere diritto al divorziovi.

Donne di Casamance, Immagine tratta da "L'essenza della Casamance", Emilio Navarino, 2004.

Questo è dovuto al primato della funzione riproduttivavii su quello dell’indissolubilità del matrimonio. Per questo non è tollerato che una donna resti a lungo senza prole. Esiste una determinata istituzione il bujeviii, che imponeva, in una data precisa ed in accordo con i bëëkin, alle giovani divorziate, alle vedove e alle ragazze madri un ultimatum: quello di scegliere obbligatoriamente un uomo nel villaggio con cui formare un ménage. Questo ruolo centrale della donna fa sì che esistano molte associazioni femminili, in particolare legate ai culti, ma anche laiche e legate al lavoro agricolo e artigianale o, più in generale all’economia. Le donne detengono bëëkin “femminili” che si sono rivelati d’importanza centrale per il gruppo e per la sua riproduzione. Alcune sono ahan-bëëkin, detentrici della regalità animista come a Mlompl o a Siganarix. La qualità di madri, la loro funzione economica, il valore accordato alla loro parola assegnano loro un posto particolare nella comunità di villaggio. Non è un caso che l'eroina della Casamance sia appunto la figura femminile di Aline Sitoe Diattax, che negli anni in cui Awa era bambina, gli anni ‘40, divenne il simbolo della resistenza culturale e pan-joola alle forze esogene che colonizzavano e sfruttavano la Bassa Casamance.


Un bëëkin, un altare della religiosità basica joola a Essaout, Immagine Sergio Pasini, 2006.

Aissatou Dieng, la madre di Awa, racconta di essere nata a Djivente, nei Pays Floup, vicino a Oussoye, nella parte sud dalla Bassa Casamance non lontano dalla frontiera con la Guinea Bissao. Djivente è tradizionalmente un villaggio dove tutte le donne della sua generazione erano ceramiste. Dopo il matrimonio con un socè (un sottogruppo mandengue) ha continuato a fare terracotte. Nel 1942 ha avuto tre gemelli, due maschi e una femmina: Awa Seyni. Come sarà per Awa, così per sua madre la maternità fu profondamente drammatica. Aissatou Dieng racconta: “Prima ho avuto una figlia, poi un bambino che non sopravvisse. Awa, Alassane e suo fratello invece sopravvissero. Ho poi trascorso tre anni senza figli, poi ho ancora avuto tre gemelli due volte e nessuno è sopravvissuto. Awa era una bambina molto tranquilla, che non ha posto mai alcun problema. Si è subito capito che era molto intelligente. Entrambi volevano andare a scuola, ma il padre rifiutò. Andò a cercare il maestro per impedirgli di prendere i bambini. Non vedeva l'utilità della scuola. Un giorno suo fratello gli disse che aveva visto in sogno ciò che potrebbe fare nella vita. E cominciò a raccontare i suoi sogni. Un giorno anche Awa ha detto di avere avuto la stessa visione riguardo a quello che potrebbe fare. A quel punto mi ha chiesto dell'argilla, ma io ho rifiutato. Allora lei ne andò a prendere in mia assenza. Segretamente ha fatto dei personaggi e li ha mostrati loro. Sono stata molto sorpresa, ho pensato che volesse fare dei vasi in argilla. Awa compose dei segni segreti che solo lei poteva capire. Da allora Awa divenne la migliore ceramista della regione e divenne famosa in tutta la Casamance. Un giorno venimmo a sapere che il Presidente della Repubblica aveva assegnato il premio per il miglior artigiano del Senegal ad Awa. Alassane, nel suo nascondiglio era un leone in gabbia. Il presidente Senghor invitò Awa a Dakar per ritirare il premio. Quando tutto fu pronto, mi chiesero di cucinare. Il giorno del Gran premio del Presidente della Repubblica in tutta la città (Dakar) ammiravano le sculture di Awa. Awa da allora fu dimenticata, ma negli ultimi anni, gli europei e gli americani sono interessati a ciò che lei fa.”

Awa Seyni Camara non è appartenente ad un gruppo etnico “puro”, joola da parte di madre, socè- mandinga da parte di padre, Awa si colloca in quella zona liminare che reintegra le diverse appartenenze nella comune convivenza comunitaria. Anche dal punto di vista religioso le sue appartenenze originarie sono opposte, musulmana la famiglia del padre, mentre legata alla religione tradizionale per quello che rappresenta la provenienza materna. Queste identità, diverse solo apparentemente, non costituiscono un problema per Awa. Animista da parte di madre poi battezzata cristiano cattolica, per tutta la vita ha avuto nel suo fetiche il suo riferimento spirituale, senza che ci fossero problemi con i suoi due mariti musulmani, e convive attualmente in perfetto equilibrio con la comunità baay-fall che si è costituita con i figli dei suoi mariti deceduti, che via via sono cresciuti si sono sposati ed hanno, a loro volta, procreato.


Un bëëkin, un altare della religiosità basica joola a Essaout, Immagine Sergio Pasini, 2006.

Awa Seyni raccontaxi: “Dovevo avere circa 12 anni quando mio padre m'ha dato in sposa ad un uomo molto più anziano di me. Mia madre non poteva opporsi, è stato mio padre che ha deciso. Nella sua casa non ci si comportava come presso i joola. Nella cultura socè sono gli uomini che decidono tutto, eppure vivevamo a Oussouye, nella paesi joola. E 'stato orribile, sono stata forzata, forzata, forzata ! Ho avuto tre gravidanze, ogni volta fu necessario il taglio cesareo. Due dei bambini sono morti. Mio marito è stato cattivo e prepotente, ma sono riuscita a salvarmi. Ho preso mio figlio e sono andata da mia madre, ma lui è tornato a riprenderlo. Mentre io, non sono riuscita a tornare con lui. Ho visto mio figlio solo molto più tardi, quando era già quasi un uomo. Ora vive in un villaggio nel dipartimento di Sédhiou. Sono rimasta con mia madre molto tempo, anni, perché ero sempre malata. Molti uomini volevano sposarmi, ma ho sempre rifiutato, ero sempre ammalata. Diallo (il secondo marito) poi è venuto, era un guaritore e si è preso cura di me e ha detto che voleva sposarmi. Ho accettato, anche se ancora oggi non so perché ho accettato! Subito dopo ha preso una seconda moglie che gli diede tre figli. Uno di loro è morto. Questa donna era gelosa, e cercò di rendermi la vita difficile. Io non voglio fare del male a nessuno, ma ho i mezzi per difendermi. Così mi sono difesa. La seconda moglie allora se ne andò con uno dei bambini, mentre l'altro rimase con noi. Ero io che mi dovevo occupare di tutto, tutto il lavoro era per me, il mercato, la cucina, la pulizia, la lavanderia. Inoltre sono stata operata, perché continuavo ad avere dei problemi di salute. Poi Diallo prese una terza moglie. Ma questa volta le sue sorelle gli dissero: tu devi rispettare Awa Seyni, perché lei è brava e fa molto bene il suo lavoro! Aveva una bambina che ha chiamato Seyni. Come la piccola Awa Seyni. Sono uscita dalla Casamance solo due volte, una volta un europeo mi ha portato a Dakar per una mostra e una volta sono andato a Kaoloack."


L'ingresso dell'atelier di Seyni Awa Camara nella sua corte, Immagine Massimo Golfieri, 2011.

Per il resto sono sempre rimasta nella mia concessione a fare terracotte. All'inizio facevo solo donne in gravidanza. Altre donne ci hanno anche provato, ma nessuna di loro è riuscita. Per produrre una serie di statue come quelle che vedete qui (6-7 opere di piccola dimensione), lavoro per circa una decina di giorni. Comincio facendo la testa, che poi devo coprire ogni sera in modo che non si asciughi. Per fare questo uso dei grandi fogli di plastica. Poi, messa la testa di lato e comincio a modellare il corpo. Se le statue sono piccole lavoro un unico pezzo di argilla. Se il corpo ha dei figli, quelli li faccio a parte e poi li assemblo alla figura principale. La parte più importante è la testa perché la testa è pesante. Occorre fare attenzione quando si solleva."

"Di notte ho delle visioni che mi raccontano quello che farò durante il giorno. No, non sono sogni. Io vedo. I miei occhi sono aperti, non dormo. E' Dio che mi ha dato questo dono. Ogni anno che faccio un soggetto, qualcosa di diverso l'anno successivo. Non posso fare la stessa cosa due volte. Anche mio marito non capisce cosa vuol dire questo dono. Potrei usarlo a fini di male se non lo deviassi nelle mie opere. Ma devo trasporlo in queste opere. Io cerco di rispettare le persone, ma se mi offendono io ho i mezzi per reagire. Posso lasciare la mia tavola da sola con tutti gli oggetti. Se qualcuno prende qualcosa poi ritorna con la voce rotta ad ammettere che ha rubato. Un ragazzo che non sapeva mi aveva rubato una cassa piena di tartarughe, cani e altri animali che avevo appena finito. L'autobus con cui stava viaggiando si è schiantato. È morto solo lui fra tutti i passeggeri. Se tu non fossi mia cugina, non direi niente di tutto questo. Non è bene parlare di queste cose.”


Trittico di donne in gravidanza, Seyni Awa Camara, Immagine Massimo Golfieri, 2009.

Awa Seyni continua: « I nostri antenati sono del Kassaxii. Mio padre era musulmano, io come mia madre ero cattolica, ma poi sono diventata musulmana. Sono nata assieme ai miei due fratelli Allassane e Adama. Ma poi Adama è morto. Allassane è ceramista in Francia, non ci si vede mai ma io so che fa lo stesso tipo di terracotte che faccio io ». « Quando eravamo bambini, i miei fratelli ed io, stavamo sempre a guardare nostra madre che lavorava. Io ho cominciato a 6 anni a fare delle terracotte. Facevo delle piccole statue, ma nessuno poteva vedere il mio lavoro. Tutto restava invisibile. Tuttavia, io le facevo assieme ai contenitori di mia madre. Ma si vedeva soltanto il suo lavoro le mie statue non apparivano. Non capivo cosa stava succedendo. Un giorno siamo scomparsi. Un giorno, i miei fratelli ed io, siamo scomparsi, avevano dodici anni. Ci hanno cercati ovunque. Nessuno ci vedeva, eppure eravamo là. Abbiamo mangiato quello che Dio ci ha donava. Tutti gli abitanti del villaggio hanno fatto una colletta per comprare degli animali per opere di bene, vale a dire per i sacrifici, in modo da poterci ritrovare. Hanno comprato mucche, capre, pecore, polli ecc. Ma mio padre e mia madre non volevano prendere nè il denaro nè gli animali del villaggio, doveva essere il loro denaro ad essere usato per farci tornare indietro. Ci cercavano nella foresta, noi eravamo nella foresta. Eravamo stati nascosti dallo spirito di Dio. Nel frattempo, i geni ci hanno insegnato a lavorare la terra per la ceramica. Ci hanno cercato per quattro mesi. Noi li guardavamo mentre ci cercavano. Un giorno Allassane è tornato ad essere visibile. Aveva una terracotta in braccio. Tutti gli domandavano chi gli aveva regalato quella statua. Loro non potevano credere che fosse stato Dio che gli avesse insegnato a fare quella terracotta che assomigliava ad un uomo con del pelo ovunque e delle orecchie molto grandi e dritte. Dicevano che era un diavolo, uno spirito della foresta. Poi mio fratello Adama è riapparso, anche lui con una statua in braccio. Non si muoveva, restava in piedi con l'argilla in braccio. Poi infine, anch'io sono riapparsa qualche giorno dopo, portavo anch'io lo stesso personaggio in braccio. Nessuno mi riconosceva, non volevano credere che fossi io, Awa Seyni. Ho dovuto trovare delle cose da raccontare perchè fossi di nuovo riaccolta nel villaggio. Nessuno aveva mai visto al villaggio delle statue come le nostre. Tutti volevano sapere che ci aveva insegnato a fare quel genere di lavoro. Ma tutti avevano paura, allora abbiamo risposto tutti e tre: « E' Dio, è Dio solo. Noi non abbiamo visto che Lui, e Lui solo ci vedeva ». Ci hanno chiesto « Dove siete stati ? ». Noi abbiamo risposto: « Noi siamo i figli di Dio, è Dio che ci ha ricondotti qui ». Dopo questo episodio tutti pensavano che, anche se esternamente avessimo la pelle nera, interiormente fossimo dei bianchi. Le prime terracotte che me ed i miei fratelli portammo, quando tornammo visibili, scomparirono misteriosamente al nostro posto ».

Awa Seyni “comme un animal, enrubannée de rouge, entreposée parmi ses oeuvres non prende nessuna decisione senza avere consultato preventivamente Kassine. E' il corno ad autorizzare anche le interviste che, nel corso degli anni, ha concesso ai visitatori ed agli studiosi che la sono andata a renderle omaggio. E' così che Awa racconta la sua vita, attraverso le sue opere, richiamando l'una attraverso le altre. Tutta la sua vita è organizzata attorno ad una relazione ed uno scambio continuo con Kassine, una vera e propria iconostasi aperta sul trascendente. E' Kassine che fissa il prezzo delle libagioni e dei sacrifici, è il suo volere che fa sì che le statue si realizzano tecnicamente “qu’elles tiennent debout”.


Kassine, il "corno" sacro di Awa,
Immagine tratta da "Le ventre de la terre", Anne Bataille, 2009.

Questo prezzo, queste offerte chiamate in Bassa Casamance “charités”, variano a seconda della difficoltà di realizzazione; si puo trattare di un pollo a cui tirare il collo o di una somma in denaro che andrà recuperata dalla vendita. Durante la cottura i corpi arrossiscono, poi anneriscono, è una visione violenta, fantasmatica, siderale. Dopo di che sono pronti ad alzarsi, ad assere ammirati in piedi. La garante della vita delle sue opere è la vita di Awa Seyni. Non c'è soluzione di continuità ontologica fra le due esistenze. « Dio mi ha dato questo corno per aiutarmi, è il corno di un bue che è stato sacrificato per noi, per ritrovarci quando scomparimmo nella foresta . Io non lo abbandono mai, è sempre con me nelle mie opere. E' Kassine che mi parla, che mi indica quello che devo modellare elle qui me parle, senza Kassine sono sola. Il giovedì il lunedì e il venerdì, non devo lavorare, ma ascoltare Kassine. Non vedo nessuno, non posso salutare nessuno, ma la gente mi cerca lo stesso, non comprendono, io non li vedo nemmeno. Durante questi giorni io prego e faccio delle offerte, cioè sacrifico degli animali per offrirli al mio corno. Io preparo i pasti, ma è qualcun'altro che mangia al mio posto. Il mio corno, è il mio spirito: è Dio. E' lui che ordina. Lui mi indica quello che vuole come terracotte. E' la voce di Dio. Per ogni ceramica il corno stabilisce un prezzo, questa somma dovrà servire a fare delle libagioni e dei sacrifici. Se le vendo più care, il resto è per me, ma devo obbligatoriamente destinare una determinata somma ai sacrifici, se no le statue non staranno in piedi. Gli animali non sò perchè li faccio. »


Kassine, il "corno" sacro di Awa,
Immagine tratta da "Le ventre de la terre", Anne Bataille, 2009.

"Un giorno, molto tempo fa, mi sono sposata. Abbiamo avuto un bambino. Se n'è andato lontano, non so dove. Poi abbiamo divorziato. In seguito mi sono sposata altre due volte, ma tutti i miei figli sono morti. Perchè ? Ad ogni gravidenza bisognava che mi operassero, mi portavano in ospedale. Un giorno abbiamo cambiato villaggio, e poi mi sono ammalata per tre anni. Io non mangiavo più, non bevevo più . Perché ? Da allora Io non mangio quasi nulla. Perché ?"

"I bambini, io le metto dappertutto. Questa donna ha molte teste, si chiama Anaré, vale a dire, "donna" in joola, in alto c'è la testa dell'antenato Anakan che guarda quelli che stanno in basso. Nello stesso tempo, per me, è una donna anziana, Agnaka. Nella mia testa, tutte queste donne sono una sola. Mi ci sono volute due settimane, prima faccio le teste e le gambe, poi il corpo. Il corpo è molto faticoso perchè vanno assemblate le varie parti. »


Il Lògos universale, una statua di Awa, Immagine di Massimo Golfieri, 2009.

« Le persone che vengono qui spesso mi rendono malata. Ma in ogni caso bisogna che vengano, se no io non potrei più lavorare. Che cosa me ne farei di tutte le mie opere e come potrei, in altro modo, trovare il denaro per i sacrifici al mio corno ? In tutta la Casamance, sono la sola a fare questo tipo di lavoro. Altrove non lo so, non ho mai viaggiato. Tutti possono vedere quello che Dio mi ha ispirato. ».Io faccio il mio lavoro per gli altri, sono io che compro il cibo, preparo i pasti, ma nessuno vuole mangiare con me. Io non voglio sposarmi per restare sola con Dio, ma era assolutamente necessario una prova del mio passaggio sulla terra. Mio marito può testimoniare che ho vissuto qui. Egli può dire che è stata Awa Seyni che ha fatto tutto questo. Tuttavia, vorrei essere sola. Le persone mi spaventano. Il mio lavoro è spaventoso, perché alcune persone, quando vedono le mie statue, si spaventano e mi mandano dei segnali di negatività. Mi portano sfortuna e difficoltà. Il lunedì, il giovedì e il venerdì, quando sono con il mio genio, mio marito è lontano. Ha paura di me e sente delle voci. Spesso in questi giorni ho paura, tremo e voglio colpire chiunque si avvicina, non posso parlare e a volte svengo e cado per terra. Così devo uccidere un pollo e, mettere il sangue sul mio corno, fare delle libagioni e prendermi la testa nelle mani per potermi svegliare. Questo accade ogni tre mesi. Io sono sempre molto sola.


Leoni, Immagine di Massimo Golfieri, 2009.

"Questo leone è molto grande, è alto quasi un metro, fra tutto ho impiegato ventidue giorni per farlo. Ho dovuto uccidere una capra ed un pollo perché rimanga in piedi. Prima le statue le facevo più piccole e la gente li acquistava più facilmente se erano piccole. Io non faccio mai lo stesso soggetto per molte volte. Quelle più difficile sono le donne. Questo «mestiere dalle dieci teste» è stato Dio che me lo ha insegnato perché io possa nutrirmi, ma quelle statue di donne mi affaticano molto. La mia testa se ne va e io mi sento sola. All'inizio impiegavo 20 giorni per fare una statua. Occorre controllare molto bene in modo che possa restare dritta in piedi. Prima facevo per lo più donne anziane e donne incinte con molti bambini tra le braccia sulla schiena, ovunque. Spesso io faccio delle statue che si mescolano e il superiore può essere un vecchio e più basso una ragazza incinta e dei bambini avvinghiati un po' ovunque, è come se ci fosse un seguito, come se fosse all'antenato sia legata a lui tutta la sua discendenza. Occorre molto tempo perchè tutto rimanga in piedi senza cadere. Questo mi stanca molto. Amo tanto fare gli animali. Ho l'impressione che faccino meno paura alle persone.


Rane, Immagine di Massimo Golfieri, 2009.

Il cavallo, Efihidiébé, l'ho fatto solo una volta. E' stato molto difficile, mi sono occorse due settimane e molti sacrifici al moi corno. Le rane le faccio di tutte le dimensioni hanno tutte le dimensioni, faccio delle vere famiglie di rane."

"Al maiale, Efrougoum, sono serviti cinque giorni per restare in piedi. Ho « pagato » a Kassine una somma per il maiale, non so perché Kassine voleva vedere un maiale, è proibito per i musulmani. Ne ho fatti anche altri più piccoli. Le mie terracotte sono molto pesanti, per questo le svuoto il più possibile attraverso un buco. Questo in realtà permette che la statua non esplodi quando viene cotta. Sono rimasta 15 giorni senza lavorare e ho « pagato » una grossa cifra a Kassine, se no le statue non sarebbero rimaste in piedi. Questa scimmia fa molta paura. In un certo momento avevo veramente bisogno di fare questo animale. Ne ho fatte molte anche se non mi piace. Quello invece è grande e potente. E' come un antenato, ha la testa di un anziano. Non ho mai visto nessun'altra lavorare l'argilla come faccio io. Non utilizzo strumenti, non mi servono, io ho le mie mani e Dio."


Il maiale, Efrougoum,
immagine tratta da Michèle Odeye-Finzi, "Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie." 1994.

"I miei figli vanno a cercare l'argilla nei bracci di mare, è lontano e bisogna scavare. Dopo, la lascio riposare 2 o 3 settimane, la purifico dalle impurità e la impasto a lungo, qualche volta aggiungo dei pezzi di terracotta già cotti e pilati al mortaio. » Prima si raccoglie la legna di ronier della brousse in una specie di pira. Poi dispongo le mie ceramiche sulla legna, facendo anche parecchi strati quando sono oggetti di piccole dimensioni. Dopo di che accendo il fuoco. E' bello osservare il fuoco che brucia, poi a poco a poco, la legna si sgretola e dalla cenere emergono le mie opere di colore rosso come l'argilla. Le statue nel fuoco si muovono, vivono. Poi tutto si spegne, la cottura può durare circa un'ora. Qualche giorno dopo, preparo la vernis con dell'argilla mescolata con acqua e dipingo le terracotte per donagli un'altra tonalità di colore.”


La preparazione alla cottura di alcune statue di Awa,
Immagine tratta da "Le ventre de la terre", Anne Bataille, 2009.

Ho deciso di riportare senza commento il lungo racconto autobiografico di Awa. Ci sarebbero molte altre cose da dire: il ruolo dei riti di passaggio nel sistema educativo joola, il rapporto fra creazione artistica ed incorporazione dei sintomi e delle relazioni con l'esotico, il rapporto di Awa con il trascendente divino, la relazione uomo ambiente alla luce del rapporto fra manualità e l'elemento primario della terra/argilla, la fusione fra economia, agricoltura, silvicultura ed artigianato e molte altre riflessioni ricche di motivi di interesse anche rispetto ad una economia come quella del nostro, cosiddetto, mondo sviluppato.

Per concludere mi sembrano coerenti le riflessioni di Latouche sul nostro sguardo sull'Africa: “L'Africa non ha bisogno di sostegno progettuale o di ingerenze umanitarie che prolunghino la sua agonia, permettendole esclusivamente di sopravvivere. Per aiutare l'Africa non è necessario essere animati da un sentimento altruistico che spinge a dare incondizionatamente, ma sempre con il rischio di affermare la nostra pretesa superiorità. Si tratta piuttosto di portare avanti un'azione di sensibilizzazione al Nord che ci permetta di cambiare i nostri modelli di vita, le cui ricadute al Sud sono devastanti. Solo autolimitando le nostre società opulente e riorientando radicalmente i nostri stili di vita in Europa, possiamo sostenere l'Africa. Invece di esportare il nostro immaginario materialistico economicistico e tecnicistico, occorre cominciare a decolonizzarlo, elaborando nuovi parametri di ricchezza e riconoscendo le altre priorità dell'umano. Per questo l'Africa non ha bisogno della nostra sollecitudine interessata ma piuttosto di fiducia, di dignità e di riconoscimento. D'altronde, se si vuole aiutare qualcuno bisogna cominciare con l'avere qualcosa da chiedergli e non solo qualcosa da offrirgli. Solo chiedendo all'Africa di aiutarci a risolvere i nostri problemi dimostriamo di riconoscerla davvero come partner.xiii


iSolov'ev, V. « La critica dei principi astratti », La Casa di Matriona, Milano 1971, 197.

iiNazaire Diatta, 1982 « Anthropologie et herméneutique des rites joola » Thèse pour le doctorat 3° cycle EHESS, Paris. Pag. 122.

iiiLa communauté baay-fall est une branche de la confrérie soufi du Sénégal des Mourides. En son sein, la voie baay-fall, initiée par Maam Cheikh Ibra Fall, cultive de nombreuses originalités. Ses adeptes ne pratiquent ni les prières quotidiennes, ni le jeûne du ramadan, ni l’assaka. Ils substituent à ces piliers de la doctrine musulmane, un assujettissement total envers leur marabout et s’investissent dans une mystique du travail censée leur ouvrir les voies d’Allah dans le cadre d’une recherche mystique intérieure. Cette interprétation de l’islam leur vaut l’opprobre de la population musulmane qui considère les Baay-fall comme des marginaux enclins à assouvir leurs déviances sous couvert de la religion. Or, avec la montée en puissance de la confrérie mouride, la communauté baay-fall connaît un engouement certain auprès de la jeunesse urbaine. Ce succès se réalise toutefois dans une perspective de ré-islamisation forte de la jeunesse et non dans celle d’un détachement vis-à-vis de la religion. Il est avancé l’hypothèse que les jeunes trouvent en cette communauté le moyen de s’émanciper de leurs assignations lignagères, sans pour autant renier le système de solidarité communautaire. Parachevant ainsi un processus d’individualisation, l’individu-taalibe acquière parcet itinéraire religieux une autonomie relative lui permettant de se réaliser et de s’affirmer en tant que sujet-individuel. Source de différenciation (au plan individuel et collectif), la conversion baay-fall permet aux individus de se rendre maître d’eux-mêmes et de mettre en œuvre une “culture de soi” les poussant à façonner leur propre éthique en fonction de la morale musulmane. C’est une nouvelle société qui s’invente et qui s’impose. Celle-ci se façonne autour du concept de cité cultuelle de terroir, permettant d’affirmer sa différence à la face du monde par le biais d’une invention religieuse d’une modernité endogène. Tratto da Xavier Audrain, Baay Fall du temps mondial: individus modernes du Senegal, “Des dynamiques de construction de sujets individuels et d’invention d’une modernité véhiculées par l’originale communauté islamique des Baay-fall.” 2002.

ivL'insieme delle procedure simboliche e materiali per mezzo delle quali i gruppi umani addomesticano la natura. L'ambiente viene così socializzato, diventa qualcosa di conosciuto (e perciò non più da temere), viene trasformato in un patrimonio culturale da cui le collettività traggono le risorse fisiche e simboliche necessarie alla loro vita. In Africa subsahariana ci sono state molteplici territorializzazioni: basica, islamica, europea (nelle due versioni relative al mercantilismo, per quattro secoli, dalla metà del Quattrocento alla metà dell’Ottocento, e al colonialismo, fino alla metà del Novecento). Mentre la prima è stata una territorializzazione autocentrata, tutte le altre sono state eterocentrate, cioè messe in atto per servire gli obiettivi di società aliene, non insediate, in forme e con finalità estranee dunque alle culture e agli interessi delle collettività insediate. Raccontare la territorializzazione africana significa ricostruire come le diverse razionalità hanno modellato il territorio. Angelo Turco, Nigrizia 2002.

iBolong o diramazione del fiume Casamance, posto circa a 30 Km ad est di Ziguinchor, che in linea d’aria fa confine fra Bassa Casamance ad ovest e Media Casamance ad est.

iiIn Media Casamance un'egemonia Mandengue, mentre in Alta Casamance un potere di orgine Peul.

iiiJean Girard, Jean Girard, 1969, «Genèse du pouvoir charismatique en Basse Casamance», Initiations et Études Africaines n° XXVII, IFAN Dakar.1969 op. cit. Pag. 11

ivStruttura di base della società assimilabile alla famiglia, entro cui l’individuo nasce, cresce, e accede alla vita economica, religiosa e sociale. Cfr. Françoise KiZerbo, 1997, op. cit, Pag. 39.

vFrançoise KiZerbo, 1997 «Les sources du droit chez le diola du Sénégal» Karthala, Paris., Pag. 47.

viThomas descrive anche un’istituzione, l’ębun, una sorta di adulterio ufficiale dove la donna poteva lasciare il marito, ritornare a casa sua e giacere con tutti gli uomini che desidera, senza che il marito possa avere da ridire. Louis Vincent Thomas, 1957/58 « Les Diolas I-II, Essai d’analyse fonctionnelle sur une population de Basse Casamance ». Mémoires de l’Institut Français d’Afrique Noir, Dakar. Pag. 263. 1969 « La poterie et les objets d’art en pays diola (Sénégal). La poterie traditionnelle. Mythes et rites ». Bulletin de l’IFAN 31: 520-60 Dakar.

viiFrançoise KiZerbo, 1997, op. cit. Pag. 55. Qui l’autrice elenca la quadruplice funzione del matrimonio: riproduttiva, sociale (cioè del gruppo di parentela), giuridica ed economica.

viiiPaul Pélissier, 1966 “Les paysans du Sénégal. Les civilisations agraires du Cayor à la Casamance », Imprimerie Fabreque, Saint-Yrieix (Haute-Vienne). Pag. 697 - 698.

ixAwenengo Dalberto, Séverine, 2005 « Les Joolas, la Casamance et l'Etat (1890-2004). L'identisation joola au Sénégal », Thèse de Doctorat de Dynamiques comparées des sociétés en développement, Univ. Paris 7. Pag. 104.

xFigura leggendaria, giovane profetessa, martire e resistente contro l’occupante europeo, cristallizzò intorno al suo nome un vasto movimento popolare. Nata intorno al 1920 nel quartiere di Nialou del villaggio di Cabrousse è il simbolo della resistenza della Casamance a tutte le tutele straniere. Cameriera a Dakar, sente delle voci che le ordinano di rientrare nei Paesi diola per dire ai Casamancesi di non coltivare più l’arachide per i bianchi, di non pagare più le imposte di guerra e di rifiutarsi di battersi in battaglia nelle file dell’esercito francese. Immediatamente l’amministrazione coloniale si spaventa e le attribuisce la maternità delle rivolte che nascono un po’ ovunque. La repressione non fa che accrescere l’influenza di questa Giovanna d’Arco della Casamance. Il comandante della regione di Ziguinchor decide allora di dare una dimostrazione militare esemplare contro il villaggio di Cabrousse, dove si trova la casa della sacerdotessa. Un ultimatum è lanciato alla popolazione: il villaggio sarà incendiato e i suoi abitanti espulsi se non viene svelato il nascondiglio della giovane donna. E’ allora che Aline, «forte e gioiosa donna di circa venticinque anni, dai modi eleganti e dalla parola fluente», esce dal bosco sacro e si dirige, in compagnia dei suoi seguaci, verso coloro che la devono arrestare. Aline Sitoé verrà deportata a Saint-Louis, poi a Tombouctou. Un velo d’oblio cade su di lei e, fino a tempi recenti, ogni volta che viene evocato il suo nome, l’amministrazione sembra avere ordine di tacere. Un misterioso silenzio che alimenta ogni sorta di ipotesi e di illazioni. Il governo cercherà di mettervi fine inviando una delegazione di universitari in Mali. Dalle conclusioni dell’inchiesta viene appurato che Aline Sitoé non sopravvisse a lungo al suo esilio e, soprattutto alla sua prigionia. Christian Sanglio, 1984, “Casamance”, L’Harmattan, Parigi. Oltre ai testi di Dalberto 2005, Darbon 1985, Girard 1969, KiZerbo 1997, Roche 1985, Cfr anche coordinata da F. G. Barbier-Wiesser, 1994, « Comprendre la Casamance. Chronique d’une intégration contrastée », Parigi.

xiI virgolettati dei racconti di Seyni Awa Camara provengono da tre tipi di fonti. Innanzitutto da colloqui informali che il sottoscritto ha avuto direttamente con Awa nel periodo che va dal 2003 al 2011, oltre che dal testo dell'antropologa francese Michèle Odeye-Finzi, Solitude d'Argile. Légende autour d'une vie. 1994 , L'Harmattan, Paris, ormai introvabile. Un'altra importantissima fonte è costituita da un manoscritto mai edito di Julitte Diagne Ciss e Anne Piette, rispettivamente donna politica casamancese e scrittrice francese, che mi fu gentilmente concesso utilizzare nell'ottobre 2006. A Michèle, Julitte ed Anne il mio più affettuoso ringraziamento.

xiiNome storico tradizionale del reame di Oussouye. Il reame del Kassà corrisponde approssimativamente con il territorio del Dipartimento di Oussouye. Va detto che comunque anche questa denominazione è di carattere esogeno, Cfr, Awenengo Dalberto 2005, Thomas 1957, Roche 1985.

xiiiLatouche, S. “L'altra Africa fra dono e mercato.”, 1999.


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